Maria Laura Tkach1
Diversi testi sono stati scritti sulla funzione del più uno nel cartello, così come sulla funzione del prodotto individuale di ciascun membro al termine di ogni esperienza di cartello.
Al contrario, mi pare che vi sia stato un minore interessamento su una questione che potremmo formulare come “la funzione degli altri (vale a dire, gli altri membri ad eccezione del più uno) nel cartello”.
Cosa vuol dire domandarsi sulla funzione degli altri, dei pari? Si può parlare, in questo caso, di funzione? I simili, nel cartello, svolgono, gli uni rispetto agli altri, qualcosa che possa essere definita una funzione (nel senso in cui parliamo, ad esempio, della funzione del più uno, oppure del lavoro che ciascuno ha da svolgere all’interno del cartello)?
Perché identifichiamo chiaramente il più uno, ma anche il compito da svolgere nel cartello (strettamente legato alla lettura del testo) come delle funzioni, se non perché sono facilmente rappresentabili come delle istanze slegate da un senso predefinito, separate da una personalizzazione? Vale a dire, il più uno non ha, principalmente, una funzione, ma è una funzione. Non si può dire lo stesso rispetto a ciascuno dei membri del cartello. Essi sono lì, non prestano il proprio corpo ad una funzione, ma lo mettono, lo portano in tutta (o quasi tutta) la sua scioltezza nello spazio del cartello.
Dopo la morte di Jacques Lacan, in Italia ed in altri paesi, in momenti differenti della storia della Scuola, molti hanno provato ad elaborare qualcosa a partire dalle esperienze di cartello in cui erano stati implicati. In questi testi si tende spesso a sottolineare l’importanza dell’effetto di scollamento dei membri del cartello tra di loro perché il lavoro proprio al cartello si svolga, effetto che si produce grazie alla funzione in atto del più uno. Mi è parso, leggendo alcuni materiali scritti sul e in relazione al cartello, che esso venisse evocato come uno strumento di cui nella Scuola disponiamo e che potrebbe proteggerci dall’inerzia propria alle forze dell’immaginario, attive in ogni collettivo umano. Lacan, nell’Atto di fondazione dell’EFP, nel 1964, scrive: “per lo svolgimento del lavoro, adotteremo il principio di una elaborazione sostenuta in un piccolo gruppo”. Sedici anni più tardi, dopo aver disciolto la sua Scuola, nel momento in cui si produce un taglio tra l’EFP e l’ECF, dice al pubblico che lo ascolta: “Io la vedo così: che ciascuno vi metta del suo. Andate. Mettetevi in parecchi, siate incollati insieme il tempo necessario per fare qualcosa e dopo scioglietevi per fare altre cose”. Non mi pare di leggere, nel testo di Lacan, alcun primato del tempo dello scollamento rispetto a quello dell’incollamento. Entrambi sono necessari perché, infine, vi sia un resto, il resto del soggetto in quanto produzione soggettiva e singolare.
Senza il tempo dell’incollamento, non solo non sarebbe possibile il tempo dello scollamento, ma nemmeno l’esistenza dei cartelli. Senza gruppo, niente cartello, niente Scuola, niente psicoanalisi!
“Che ciascuno vi metta del suo”; vale a dire, che ciascuno faccia il passo che lo porta a perdere ciò che deve perdere – “del suo” – ogni volta, e a mettersi insieme ad altri perché, forse, l’esperienza di un nuovo sapere avvenga.
Ecco, dunque, ciò di cui noi, che teniamo alla vitalità della psicoanalisi, dobbiamo ringraziare ogni membro di un cartello: di prestare la propria divisione al servizio della causa analitica, che è sempre Una, ma diversa per ciascuno.
Bibliografia:
- Jacques Lacan, Atto di fondazione. La Psicoanalisi, n. 30/31
- AA.VV., Il cartello nel campo freudiano. Quaderni di Psicoanalisi, 1990