Il lavoro del cartello “psicoanalisi e moda” ai tempi del Coronavirus
Alfonso Leo
La pandemia Covid-19, come spesso accade con eventi naturali che sfuggono al controllo dell’uomo, ma che su di esso hanno poi enormi conseguenze, è stata un catalizzatore per l’esplosione della bulle speculativa della Moda e di tutto il suo sistema, dal fast-fashion al lusso. Come spesso accade nell’industria e nella finanza, nonostante ci fossero da tempo segnali di stanca e di crisi, il sistema ha preferito ignorarli continuando la sua corsa folle verso “l’abisso”. I grandi gruppi hanno oramai organigrammi estremamente complessi, eserciti di manager con responsabilità di punta ma ambiti d’azione limitati, che rendono estremamente cronophage i cambiamenti di rotta o strategia.
Questi mesi di sospensione determinati dal lockdown hanno visto il primato di pigiami e tute comode, poi la riapertura della possibilità di uscire all’aperto ha riportato in auge la consueta domanda: “Cosa mi metto?”. I dati mostrano che al momento della riapertura si è verificato un fenomeno di revenge spending: una corsa all’acquisto con scopo consolatorio messo in atto per tappare il buco, la mancanza, creati dal periodo di clausura; fenomeno comunque di breve durata poiché la crescita del volume degli acquisti rimane ancora timida e contenuta.
La prima reazione del mondo della moda alla riapertura delle attività commerciali è stata l’invito a rinunciare alla fast fashion, rinuncia al godimento dell’imperativo del nuovo, del capo utilizzato in media tre volte e poi buttato, in linea ed in ossequio al discorso del capitalista. Questo può spiegare perché un lockdown di soli due mesi abbia messo in ginocchio i grandi gruppi e il sistema in generale: il marchio Zara del gruppo Inditex annuncia la chiusura di 1200 negozi nel mondo; Diane Von Furstenberg licenzia il 75% dei suoi 400 dipendenti, chiude la filiale inglese e salva solo la boutique monomarca di New York sulle diciannove aperte nel mondo; marchi di lusso di fama mondiale con il personale in cassa integrazione fino a fine anno.
Il Covid-19 ha dato un’accelerazione alla corrente di pensiero di chi, già da tempo, suggeriva la strada della sostenibilità e il ridimensionamento di produzione e distribuzione, soprattutto con un’ottica green; la moda sostenibile promuove la ricerca di nuovi materiali derivati da scarti vegetali, tessuti ecologici e di recupero. Inoltre, le aziende sono invitate a fornire informazioni dettagliate sulla tracciabilità dei prodotti e sul loro modus operandi anche in termini di sostenibilità sociale.
L’ultima frontiera del green sembra essere il fashion renting, la possibilità di noleggiare tramite internet, direttamente da casa, capi ed accessori disinfettati in lavanderie specializzate e certificate. DressYouCan, una startup tutta italiana, ha creato una sorta di armadio infinito in condivisione, dove poter prendere ciò che si vuole quando si vuole.
La lettera di Giorgio Armani al «Women’s Wear Daily» (nota come WWD e considerata la bibbia del sistema moda), i messaggi Instagram dalla quarantena di Alessandro Michele, D.A. di Gucci, quelli di Saint Laurent, Balmain e la petizione di Dries Van Noten rivelano quanto il sistema fosse malato e quanto fosse grave la malattia, iniziata più di 10 anni fa… C’è voluta la pandemia affinché ce ne si accorgesse e cominciasse una profonda riflessione e revisione. Il sistema dovrà cambiare e questo sarà vitale per le aziende che riusciranno a rinnovarsi, conservando i propri “capisaldi”, caratteristiche e peculiarità che le hanno rese famose, facendo proprie però le nuove esigenze che il Mercato sta delineando: trasparenza sul “Made” e sul rispetto dei diritti dei lavoratori della filiera, aumento del valore intrinseco, autenticità, storytelling, impronta carbone, green label (riutilizzo, sostenibilità, ecologia).
L’obbligo della mascherina, che diventa essa stessa accessorio di moda, porta un cambiamento anche nel mondo del make-up che punta su prodotti leggeri, no transfer, e sposta il focus dalla bocca agli occhi. Prima del Covid, per la diffusa pratica del selfie era fondamentale truccare ed atteggiare la bocca in modo particolare, affinché centrasse l’attenzione, calamitasse lo sguardo. Ora invece leggiamo sui social messaggi ironici che recitano: “Vi tocca imparare a fare gli occhi a culo di gallina”. Fioriscono dunque tutorials su come far risaltare gli occhi: sopracciglia, ciglia finte, eyeliner, smokey eyes, ombretti coi colori giusti che fanno brillare l’iride. Ma nulla cambia in realtà, “theeye is the new mouth”; gli occhi, non lo sguardo, sono ora i protagonisti e diventano il nuovo oggetto che deve essere guardato. Non c’è una valorizzazione dell’occhio truccato che guarda, non siamo al primo tempo della pulsione scopica (guardare) ma al terzo (farsi guardare), si tratta di un occhio che deve essere ben truccato per attirare lo sguardo altrui, come strumento di sé-duzione. Di nuovo, la mascherata femminile ha lo scopo di attirare il desiderio mentre la mascherina ha la funzione del velo, come il vaso di fiori del quadro di Zucchi, che invita ad immaginare cosa ci sarà sotto, ovvero niente. Il non-averlo compensato dall’esserlo degli occhi a culo di gallina, che sono in definitiva, come anche la bocca, un buco.
Anche il mondo della comunicazione legata alla moda sta virando verso un concetto di qualità anziché quantità. Mentre prima ci si affidava molto a social ed influencers, stimati per il numero di likes, followers e views, ora informazioni e rappresentazioni si costruiscono attorno ai contenuti, realizzati sotto forma di racconti e storie con cui potersi identificare. La moda è ridotta a puro significante, talvolta disgiunta anche al prodotto in sé. Un caso particolare è rappresentato dalla campagna pubblicitaria di Aspesi, una casa di moda italiana, il cui Amministratore Delegato afferma: “questi mesi ci hanno imposto un rifocus generale, sicuramente un’accelerazione nell’online e nel digitale, ma non siamo mai stati vittime delle stagioni, non abbiamo mai fatto sfilate, (…) siamo slow e rimaniamo slow, (…) non siamo mai stati fast, preferiamo il Be Normal”.1 Ancora Clemenza: “Vorrei continuare a sviluppare la parte artistica e culturale attraverso la moda: avere dei sogni, ma materializzarli ogni giorno con cose reali, vere e profonde”.
Aspesi ha sviluppato il progetto ManneQueen Town, un mondo popolato di manichini, elegantemente vestiti con abiti della casa di moda, ma con una presenza umana, l’unica che parli italiano, mentre i manichini si esprimono in inglese. Gli spot si occupano di inclusione e di psicoanalisi, di cinema; mentre gli abiti sono solo indossati. Ancora Clemenza: “Per me fare cultura creativa in Aspesi vuol dire inventare, mescolare seguendo sempre l’educazione all’immagine, rimanendo in libertà, per produrre meraviglia senza avere paura di fare errori, come fa un artista, per proiettare nel futuro l’ispirazione del passato: la moda è la storia dell’immagine, un designer deve saperla leggere; nel tempo il Dna della moda è lo stesso, cambiano solo i codici”.
È chiaro che il mondo della moda abbia compreso che più del significato abito, conta il significante dell’arricchimento dato dallo storytelling, l’abito, in sé, conta sempre meno. La protagonista del 4° episodio di ManneQueen Town è l’attrice Valeria Bruni Tedeschi che, stesa sul lettino, racconta alla propria analista un sogno popolato di manichini. Quindi domanda: “Scusi, lei è lacaniana o freudiana? Perché è da sei mesi che non mi dice una parola”. Si volta verso l’analista, un manichino anch’essa, e conclude: “È lacaniana?”.2 Vorrà pur dire qualcosa…

Il cartello psicoanalisi e moda è composto da: Vittorio Cucchiara, Alfonso Leo, Alice Pari, Marika Soricone e Giuseppe Monaco.