Massimiliano Rielli
La scelta di prendere parte per la prima volta a un lavoro di Cartello fornisce – lo scrivo ovviamente a partire dalla mia posizione – una possibilità per uscire (non del tutto) dalla solitudine che si può vivere nel proprio rapporto con lo studio dei testi ed il sapere che c’è in gioco.
Vi è allora, in questo lavoro, una messa in tensione tra la solitudine delle proprie questioni singolari e l’incontro con gli altri, resa possibile a partire dal rapporto che ciascuno dei partecipanti ha con la causa analitica; un nodo che è possibile fare, di volta in volta, per il tramite dell’esserci, della presenza, dell’ascoltare, del prendere parola. Forse è proprio la possibilità di poter dire ad altri qualcosa del proprio desiderio per la psicoanalisi, sfidando ciò che vi è di indicibile in esso, a conferire a questa modalità di lavoro uno statuto particolare. Rispetto al lavoro in solitudine vi è forse qui un effetto epistemico che passa per il tramite dell’enunciazione.
Questa messa in tensione può essere forse avvertita particolarmente all’interno di un Cartello che intende iniziare una ricerca su “Sogno, incubo e paure”1; tre momenti in cui si fa, da soli, esperienza di qualcosa del proprio inconscio.
Dall’ascolto di una conferenza tenuta da Anne Lysy presso l’Istituto Freudiano2 scelgo di accostarmi alla questione del sogno in psicoanalisi partendo da un punto che mi incuriosisce: l’ombelico del sogno. È un punto misterioso: Freud chiama così il punto in cui il sogno è più vicino all’Unerkannt (“non riconosciuto”), lì dove l’interpretazione finisce per arrestarsi poiché “ha inizio un groviglio di pensieri onirici che non si lascia sbrogliare”3.
Lacan4 legge questo Unerkannt di cui parla Freud come un rimando all’Urverdrängt (rimozione originaria), dunque a qualcosa che non può essere detto, definibile come “alla radice del linguaggio”.
Si può forse dire che Lacan prende questa chiusura cicatriziale, che è l’ombelico, alla rovescia: non come termine ultimo dell’interpretazione, ma come punto di origine, punto di innesto de lalingua sul corpo. Giunti, in particolari sogni, al limite strutturale delle possibilità interpretative del simbolico vi sono allora tracce reperibili di questo trou-matisme.
L’ombelico non è dunque un punto di silenzio, al contrario, è dove le significazioni si susseguono in una fuga continua, poiché vi è lì qualcosa che “non cessa di non scriversi”.
Nel corso delle riunioni del Cartello incontriamo diverse questioni, in particolare ci interroga la frase di Lacan “ci si sveglia solo per continuare a sognare”5 e mi colpisce la considerazione posta da uno dei partecipanti circa “l’analisi come unico luogo in cui non viene chiusa la porta al reale”. Tali questioni possono però trovare un loro peso solo articolandosi con qualcosa della propria esperienza d’analisi e della propria vita.
Mi domando: “cosa si cerca di ricavare dall’incontro con l’analista?”; per ora direi che forse da questa esperienza si ricerca proprio un’occasione di risveglio.
Nel suo intervento “Le mot qui blesse”6 Miller distingue l’interpretazione freudiana, come traduzione, dall’interpretazione lacaniana come “rivelazione [che] solleva il velo su ciò che è impossibile-a-dire, [che] legge ciò-che-non-si-può-dire, al di là della rimozione”7.
Dunque l’ombelico del sogno può forse essere rappresentato come un punto di frontiera: al di qua di esso si ha a che fare con l’inconscio decifrabile, per cui è possibile l’interpretazione che “si soddisfa nella significazione sessuale”8; mentre al di là dell’ombelico ci si può imbattere in ciò che sfugge ed è irriducibile a tutto questo. Si tratta di una semplificazione, ma per la clinica ne deriva una scelta circa il come porsi nei riguardi dell’ombelico: puntare o sfuggire ad esso? La psicoanalisi può trovare anche in questo coraggio la sua unicità.
Anaëlle Lebovits-Quenehen9 scrive che affinché l’analisi possa mirare al risveglio (o, almeno, a quel po’ di risveglio che ci è consentito) occorre trovare un modo per avvicinarsi all’impossibile a dire. Per acciuffarne qualcosa bisogna cogliere particolari istanti. Suggerisce di adoperare proprio “le tracce di godimento che lalingua ha lasciato accessibili, se non al ricordo, almeno alla stessa lalingua che usiamo, nelle sue singolari risonanze”10. Con un’espressione che mi ha molto colpito parla allora di “far risuonare, far vibrare l’ombelico”11 ad esempio attraverso l’equivoco prodotto attivamente, sul modello del witz, o messo in risalto con il silenzio: momenti di sospensione, di fuori senso. Questa ambiguità che fa vibrare l’ombelico può evidenziare e far risuonare la barra che collega e separa Significante/significato poiché «è questa barra a farci accorgere che, quando parliamo, manchiamo sempre il reale in gioco, ma è tornando ad essa che lo manchiamo in un altro modo, e persino “diversamente da chiunque altro”12, a partire dalla singolarità di cui ogni lingua materializza l’inconscio. Si tratta di leggere in modo diverso per mancare in modo diverso, poiché non ci si può riuscire che mancando. Per fare questo ci si appoggia a un buco, che si mostra sotto forma di nodo o barra, all’occasione»13.
Sono per ora primi passi per una ricerca da continuare…
Note