di Françoise Labridy1
I cartelli, un lavoro di Scuola: delle elaborazioni rese possibili, non senza altre che pure vi si confrontano.
Il cartello, al pari della cura, del controllo e della passe, fa parte della formazione dell’analista. Esso è in contatto anche con le questioni e le crisi del tempo presente: “Nessun progresso è da attendere (da un cartello), se non una messa a cielo aperto periodica dei risultati e delle crisi del lavoro.”2
Nessuna produzione di sapere senza soggetto, altrimenti è un sapere morto. Le crisi del lavoro in cartello sono inerenti all’impossibilità di trovare nel simbolico una possibilità di temperare il reale, di velarlo o di pacificarlo; la precarietà simbolica, la debilità strutturale propria dei “parlesseri” non si annullano, piuttosto si spostano nei fallimenti successivi a “sapere ancora”. Fare un cartello è bucare un sapere già costituito, è dividersi dalle proprie credenze precedenti, spostarle, significa conquistarsi un pochino rispetto al proprio non volerne sapere nulla, è procedere così di crisi in crisi tra il sapere già lì e le iterazioni che accecano la questione della verità, con il luogo del godimento. “Per lo svolgimento del lavoro adotteremo il principio di un’elaborazione sostenuta in un piccolo gruppo.”3 Il cartello è uno degli organi di base della Scuola in cui si deve compiere un lavoro che “nel campo aperto da Freud reintroduca il vomere tagliente della sua verità – che riconduca la prassi originale da lui istituita con il nome di psicoanalisi al compito che a essa spetta nel nostro mondo – che con una critica assidua vi denunci le deviazioni e i compromessi che smorzano il suo progresso degradando il suo impiego.”4
Le crisi della civiltà si accentuano e si inaspriscono. Il nostro rapporto con la natura vacilla.
Possono derivarne degli effetti soggettivi, che ravvivano opposizioni divergenti; alcuni si gettano in una fuga disperata in avanti, in una proliferazione incessante di significanti e in una corsa folle verso oggetti che si trasformano rapidamente in scarti mentre altri mollano questa corsa folle incarnando essi stessi l’oggetto decaduto e abbandonato dall’Altro. Tra le opposizioni binarie che sconvolgono, come aprire nuove vie/voci?
Il lavoro in cartello potrebbe diventare un’offerta politica del “chi vive” in molti, che la Scuola propone ai praticanti che si sobbarcano il reale del campo sociale, affinché continuino a vigilare reperendo quello che vi emerge, cogliendo quello che va storto, rimbalzando, facendo circolare del vivente in quello che “meccanizza”, che schiaccia o impaurisce il nostro contemporaneo?
Il cartello potrebbe essere una messa in atto di passaggi successivi, prendere la palla al balzo dell’uno per rilanciarla a un altro? Confrontarsi passo a passo, con altri, ma per ciascuno alla contingenza del reale, “scollarsi” attraverso le crisi di sapere: “Nulla di creato che non appaia nell’urgenza, nulla nell’urgenza che non generi il proprio superamento nella parola”.5 Accompagnarsi in un lavoro incessante di dissoluzione, in questo modo il vivente dialettizza il ritorno della pulsione di morte. La vacillazione del simbolico assume forme diverse di fronte al sorgere del reale: squarcio del velo del fantasma, scatenamento, scollegamento, invenzioni sorprendenti, circolazioni molteplici di elementi simbolici o di oggetti, che permettono o meno di mettere insieme del vivibile.
Le crisi in un cartello sono anche delle rotture di continuità tra delle routine, delle abitudini e delle emergenze soggettive impreviste e le contingenze del reale. Il dispositivo ci spinge a fare di questi momenti un’occasione di estrazione e di elaborazione di un sapere estraneo. In cui l’atto è sempre all’orizzonte, senza sogni di un dolce domani.
Note