di Adele Succetti
“La gioia supera la categoria del godimento in quanto comporta una pienezza soggettiva che meriterebbe uno sviluppo”.
J. Lacan, Le Séminaire, Livre I, Les écrits techniques de Freud, Seuil, Paris, 1975, p. 229.
Il cartello-lampo di cui ho fatto esperienza è partito dal pre-testo di É. Laurent intitolato “La Scuola e il peggio”, in cui il peggio è associato, seguendo l’insegnamento di Lacan, all’affetto di orrore, che si declina come orrore della verità, orrore dell’atto e orrore di sapere. La Scuola, infatti, è l’esperienza che riunisce quanti hanno toccato, ognuno a modo proprio e a partire dalla propria posizione, qualcosa del proprio peggio, di ciò di cui si ha orrore. Assumere la propria castrazione significa accogliere il fatto che il sapere è non-tutto, come la verità, e che l’atto è possibile solo quando il buco si intravede come vuoto. Come indica bene Laurent nel suo testo, si “tratta di cogliere il punto in cui, nel soggetto, l’effetto d’orrore raggiunge un ritorno […] che trovi il significante che conviene all’approccio al peggio che si è per lui realizzato”. Con queste parole Laurent si riferisce, ovviamente, all’esperienza della passe, in cui a partire dal buco dell’oggetto, il passant è stato in grado di inventare – come effetto di witz – il significante che, per lui, funziona da bordo per contornare il peggio.
Sin dai primi incontri di cartello, in cui abbiamo interrogato il concetto di peggio mettendolo in tensione con quello di Scuola, ad ogni modo, è risuonata in me la frase di Lacan presente nella sua “Allocuzione sulle psicosi del bambino”, del 1968, ovvero: “quale gioia troviamo noi in ciò che costituisce il nostro lavoro?”1. Lacan ne parla in relazione al difficile lavoro clinico con le psicosi infantili, ma per me è stato il significante che è venuto in risposta al peggio e all’orrore. In effetti, così come l’esperienza della passe può produrre degli effetti di witz, l’esperienza del cartello permette di sperimentare, grazie al lavoro con l’altro, un rapporto più leggero con il proprio non volerne sapere, vale a dire con il sapere e con il suo buco.
Se, come indica Lacan nello stesso testo, ogni formazione umana “ha per essenza e non per accidente di porre un freno al godimento”,2 l’esperienza del lavoro in cartello, in cui ognuno lavora a partire dalla propria singolarità e in cui l’unica finalità è l’avanzamento soggettivo nel discorso psicoanalitico, dovrebbe garantire di per sé una certa leggerezza. Ognuno vi si lancia a partire dalla propria posizione, ognuno può tentare di leggere ed elaborare… dalla propria posizione analizzante. La gioia, quindi, è un di più, che si realizza quando, grazie all’altro – sia esso il Più-Uno o un altro cartellizzante – da un’elaborazione tentennante, dalla parola singolare emerge, imprevista, una trovata! Dall’inibizione a dire, alla gioia di aver detto e condiviso le proprie elaborazioni, riflessioni con gli altri… alla sorpresa di un sapere nuovo che solo la presenza dell’altro permette.
La gioia del cartello sta anche nel fatto che il lavoro in cartello è un lavoro di Scuola, volontario o provocato, ma comunque libero dall’inerzia del narcisismo delle piccole differenze: nessuno insegna, nessuno fa il padrone, ma ogni “sparso scompagnato” lavora con l’altro sotto l’insegna della Scuola, come indica J.-A. Miller nella sua Teoria della Scuola-soggetto di Torino, per strappare qualcosa al proprio non volerne sapere. Per questo, però, ci vuole coraggio e tempo, è un’etica da costruire nel e col tempo, sempre di nuovo – Goliarda Sapienza parlava addirittura di un’Arte della gioia – perché, come indica Lacan in modo un po’ duro nello stesso testo, “siamo forse all’altezza di quello che a quanto pare siamo chiamati a portare dalla sovversione freudiana, cioè l’essere-per-il-sesso? Non sembriamo abbastanza valorosi da tenere tale posizione. E nemmeno contenti. Il che prova, penso, che non ci siamo proprio per niente”.3
