Adele Succetti1
Prima di entrare nel tema che vorrei presentare oggi, è necessario, vista la complessità del concetto, dare qualche definizione del pas-tout nell’elaborazione di Lacan. Si tratta di un concetto di cui Lacan ha cominciato a parlare sin dal suo Seminario XV dedicato all’atto psicoanalitico e che ha portato avanti, sviluppandolo ulteriormente, nei Seminari XIX …O peggio e XX, Ancora, oltre che nel suo scritto del 1972, L’Etourdit, Lo stordito.
Sin dall’inizio, Lacan parla del non-tutto come ciò che “permette di respingere l’universale, introducendo, così, la nozione di particolare”. Come intendere questa affermazione, che definisce il non-tutto con una funzione particolare, quella cioè di respingere, di porre dei limiti all’universale? Anzitutto, per raccapezzarci un po’, possiamo dire che la psicoanalisi parte dalla parola dell’analizzante che è sempre unica, singolare e quello a cui dà spazio, nell’esperienza analitica stessa, è quanto vi è di più personale e di meno condivisibile, di meno cioè universale, vale a dire il godimento. Di fatto, quando Lacan parla di universale e di particolare fa riferimento alla logica di Aristotele e alla sua trasformazione realizzata da Charles Sanders Peirce che presenta anche nel Seminario XVIII,2 per sostenere, per l’appunto, “che non c’è universale della donna”. La donna, quindi, come il godimento è dell’ordine del particolare in quanto non se ne può fare una classe – la classe di tutte le donne –, cioè un insieme chiuso, ma ognuna va presa una per una, così come il godimento di un parlessere nulla ha a che vedere con quello di un altro. Non c’è universale della donna è un altro modo di dire quello che Lacan affermerà a Milano, nel 1972, quando dirà, facendo scandalo, “La donna non esiste”. La donna, infatti, se esistesse, in quanto termine generico, sostantivo che rappresenta il femminile, in quanto universale è dell’ordine dell’essere e non dell’esistenza che, invece, si declina piuttosto nel particolare.
Se torniamo, comunque, al concetto di pas-tout, esso fa riferimento a uno sforzo di messa in logica da parte di Lacan, che darà origine a quelle che sono le sue formule della sessuazione. Con queste formule, Lacan risponde e completa la logica aristotelica allo scopo di circoscrivere l’impossibile del rapporto sessuale, l’impossibile del rapporto fra i sessi che, per l’appunto, in quanto impossibile non si può scrivere. Eventualmente, suggerisce Lacan nel suo Seminario XVIII, il rapporto è “sessuato”,3 vale a dire che è come significanti che uomini e donne assumono il sesso – di questo c’è traccia nelle identificazioni, a livello simbolico e immaginario – ma non “sessuale” in quanto il “reale del sesso”, per riprendere il titolo del prossimo Convegno della SLP – è ciò che fa buco, quello cioè che rende impossibile il rapporto. A livello del godimento, inoltre, come indica bene Miller nella quarta di copertina del Seminario XVIII: “non è lo stesso per l’uno e l’altro sesso. Difficilmente localizzabile sul lato donna, e a dire il vero diffuso e non inquadrabile, il reale in gioco è, sul lato uomo, coordinato a un sembiante principale, il fallo. Da cui risulta che, contrariamente al senso comune, l’uomo è lo schiavo del sembiante che supporta/sostiene mentre, più libera in questo punto, la donna è anche più prossima al reale […] se il fallo è adatto a significare l’uomo in quanto tale, “tout homme”, il godimento femminile, poiché è “non-tutto” preso dentro questo sembiante, fa obiezione all’universale”.
Il godimento sul lato maschile, che potremmo dire anche godimento fallico, è soggetto al limite della castrazione su cui Freud e anche Lacan hanno, come indica Miller nell’Uno-tutto-solo, “concepito la logica del desiderio”: tutti gli uomini sono soggetti alla castrazione, ad eccezione dell’almeno-uno che non vi è soggetto – il Padre mitico – e che permette così di creare l’insieme chiuso di tutti gli uomini, cioè l’universale degli uomini. E tutto quello che si può dire, tutto quello che è dell’ordine del significante, il sembiante in primis, subisce o rientra nella logica della castrazione. A differenza di Freud, bisogna notare che, per Lacan il “padre non è l’universale, è quello che si tiene fuori dall’universale in quanto singolare”.4
Sul lato femminile, invece, “non-tutta donna” è soggetta alla castrazione, vale a dire che oltre al godimento fallico, c’è un godimento supplementare, non soggetto alla castrazione, che Miller nel suo corso L’Uno-tutto-solo estende al godimento del sintomo nella sua accezione più reale, al godimento cioè in quanto evento di corpo. In questo senso, egli afferma che “il non-tutto (…) è la legge dell’essere parlante in quanto tale”.5 Non-tutto, nell’esperienza analitica, risponde o può essere sussunto dal Nome-del-Padre, e quindi dal fallo, non-tutto in altri termini risponde al senso, che è un altro nome dell’universale. Oltre a ciò, Lacan evidenzia anche due diverse modalità del tutto e del non-tutto, ovvero, come scrive nel suo Seminario XIX … O peggio: “Da un lato, abbiamo l’universale fondato su un rapporto necessario con la funzione fallica” (fallo e universale vanno insieme) e “dall’altro lato, un rapporto contingente, perché la donna è non-tutta” (il non-tutto, cioè, è dell’ordine del contingente, può accadere…).6 Alla funzione fallica – che deriva dalla castrazione in quanto ciò che ostacola il rapporto sessuale – corrisponde quindi la funzione della parola e i limiti del simbolico, mentre al godimento femminile, al non-tutto, si collega piuttosto il silenzio, il godimento fuori senso, indicibile, come mette bene in evidenza Marie-Hélène Brousse nel suo ultimo testo7.
Trasmissione della psicoanalisi e universale
Nella sua conferenza “Lacan pour Vincennes!”,8 del 1978, Lacan, dopo aver sottolineato che ogni discorso “si prende per la verità”, sostiene che il discorso dell’analista, in cui l’oggetto piccolo a sta al posto del sembiante (a sinistra in alto), è l’unico discorso che esclude la dominazione. E aggiunge, “detto in altre parole: non insegna niente. Non ha niente di universale: proprio per questo non è materia di insegnamento”. Un discorso, quindi, domina, regola, organizza un mondo in quanto stabilisce, in un modo o nell’altro, quale è la verità per tutti. A questo fa eccezione il discorso analitico che, come spiega Miller nel suo corso “Tout le monde est fou” del 4 giugno 2008, “esclude la dominazione perché non organizza un mondo”,9 anzi… quello che produce sono piuttosto degli “sparsi scompagnati” che si fanno, ognuno a modo proprio, responsabili del proprio godimento. Il dominio dei discorsi, quindi, ha a che fare con il per-tutti, con l’universale, mentre il non-dominio del discorso analitico ha a che fare piuttosto con il non-tutto, lo accoglie e, addirittura, cerca di strutturare anche l’istituzione – la Scuola – attorno ad esso. Non esiste – ad esempio – l’universale dell’analista, una definizione che valga per-tutti, piuttosto si può dire, nell’après-coup, che c’è stato dell’analista… in un determinato momento, come verifica dell’effetto di una interpretazione.
In effetti, continua Lacan, il discorso analitico “non ha niente di universale: proprio per questo non è materia di insegnamento”,10 e lo dice in una sede universitaria importante. A questo proposito Miller fa notare, sempre nello stesso corso, che “non è evidente che l’esperienza analitica sia per tutti, né per tutte le culture, né per tutti i tempi, né per tutti”. Essa, cioè, non è eterna e neppure vale per tutti. Il suo riferimento essenziale, infatti, è il non-tutto addirittura, “formulando una proposizione universale, che è quella dell’esclusività del singolare”. In questo, afferma Miller, c’è incompatibilità tra la psicoanalisi e l’università, in quanto il sapere punta necessariamente all’universale mentre esclude il reale, il punto di inciampo, quello che permette a Lacan di creare un a-logica, il luogo cioè del non-tutto. Lacan continua il suo intervento dicendo: “Come fare a insegnare quello che non si insegna?” E suggerisce due strade: una, quella di Freud che “ha considerato che tutto è sogno e che tutti (…) sono folli, ossia deliranti” e quella che ha continuato Lacan, che consiste nel “correggere l’oggetto”, con la matematica e la logica. Mentre Freud infatti dà valore all’universale del sembiante, del senso (sempre fallico), Lacan tiene in conto l’oggetto e, correggendolo, si attiva per circoscriverne il buco… sino a fare spazio al non-tutto. Ed è anche quello che si realizza in un’esperienza analitica: si “delira”, si associa significante dopo significante e, a mano a mano, si corregge l’oggetto, fino al vuoto.
Ovviamente, Lacan non ci dice granché su come si possa insegnare la psicoanalisi, cioè quello che non si insegna…. sappiamo però che lui ha sempre insegnato a partire da una posizione analizzante, e non come analista. Il che non significa lanciarsi nell’associazione libera ma piuttosto assumere le conseguenze, il dire, che sta dietro o sullo sfondo dei propri detti.
Quando poi fonda la sua istituzione – in opposizione alle varie Società di psicoanalisi, strutturate secondo una logica fallica, a partire cioè da un’eccezione che istituisce il gruppo – Lacan decide di chiamarla Scuola, vale a dire un luogo dove si può imparare, dove “si può sapere”, dove cioè ci si forma, a condizione che ognuno ci metta del suo. Ognuno, quindi, dovrebbe o comunque può passare attraverso un’esperienza, quella dell’analisi in primis, ma anche quella del controllo, e quella del lavoro con gli altri. E, in effetti, nel suo “Atto di fondazione” Lacan propone il dispositivo del cartello che, nonostante la presenza di un più-uno (un leader povero, come lo ha definito Miller), funziona secondo la logica del non-tutto, allo scopo di fondare un nuovo tipo di legame sociale. Come scrive infatti ne Lo stordito, si tratta, per Lacan, di fondare (con la sua Scuola) un legame sociale “sbarazzato di qualsiasi necessità di gruppo” e di “oscenità immaginaria”.11 Come indica Miller, il “legame sociale ripulito da qualsiasi necessità di gruppo” non concerne il gruppo in quanto tale ma piuttosto il legame analitico stesso. É lì che la cosa va ripulita… non nel gruppo fra analisti.
Questo è possibile – o comunque questa è l’impresa a cui Lacan si è consacrato e che Jacques-Alain Miller e l’AMP stanno portando avanti da anni – costituendo un gruppo che non risponda alle formule della sessuazione maschile, che non si fondi cioè sul per-tutti, ma che si ispiri piuttosto al non-tutto, che gli faccia spazio. Sembra, potremmo dire, una contraddizione in termini: il gruppo si struttura sempre a partire da un’identificazione verticale, il gruppo fa per-tutti… quindi che fare? Per risolvere questa impasse, Lacan inventa dei dispositivi per andare contro l’universale che caratterizza ogni gruppo sociale e, oltre alla passe, inventa il cartello proprio a questo scopo.
Il cartello non-tutto
Il cartello è un piccolo gruppo, ispirato all’esperienza dei piccoli gruppi di Bion, in cui i partecipanti si organizzano attorno a un tema di lavoro, secondo un’identificazione orizzontale, e in cui si fa l’esperienza della lettura dei testi non senza il confronto con gli altri. Il tutto entro un tempo limitato e deciso sin dall’inizio. Come indica Frank Rollier nel suo testo pubblicato nell’ultimo numero di Cartello, “per quanto concerne lo studio della psicoanalisi, il cartello apre una porta che permette di uscire dal godimento solitario e senza limiti a cui il discorso capitalista spinge ferocemente. Il primo effetto del cartello è quindi quello di introdurre la dimensione della parola”.12 A differenza della lettura solitaria – necessaria e fondamentale –, Lacan ritiene infatti che la psicoanalisi si trasmetta attraverso il transfert di lavoro. E nel cartello, si può fare esperienza di quella che è la logica del non-tutto: ogni cartellizzante vale quanto l’altro, ognuno sceglie un proprio tema e, in un tempo limitato (necessario affinché non ci si incolli), ognuno può produrre un lavoro e, eventualmente, prendere atto di quello che per lui si è modificato nel suo rapporto con il sapere analitico. Come spiega bene Amelia Barbui nel suo articolo pubblicato ne La Psicoanalisi n. 59, “per questo il Cartello è uno strumento di formazione psicoanalitica; è un dispositivo dove si sperimenta, si condivide, e si accoglie, insieme ad altri, la molteplicità e l’incompletezza/inconsistenza del sapere non-tutto”.13
Il cartello funziona secondo la logica del non-tutto e ognuno vi opera, come indica Miller nel suo testo sulle “Cinque variazioni sul tema dell’elaborazione provocata”, a partire dalle proprie insegne, dalla propria particolarità e non dalla propria mancanza-ad-essere. Se ne fa esperienza, nell’incontro con l’altro, nel tempo che può cambiare e nella divisione soggettiva che la parola stessa mette in atto. Quello a cui si giunge non è un sapere universale, cioè valido per-tutti, né tanto meno un sapere universitario, ma un sapere non-tutto, pezzi staccati di sapere che risuonano fra loro attorno a un buco. Addirittura, questa è la mia esperienza, ogni cartellizzante, grazie allo scambio con gli altri, ha modo di vedere che la propria questione, il proprio tema d’interesse prende via via forma, che non sempre corrisponde alla forma attesa. Per chi lo vuole, può fare l’esperienza dell’Heteros che non è un tutto.
La via del non-tutto è l’unica che assicura un futuro alla psicoanalisi perché l’altra strada, quella dell’universale fallico, ha poco fiato… resta all’ombra del padre, si inceppa nei margini della ripetizione e non lascia lo spazio all’invenzione.
Note