Vittorio Cucchiara
La bellezza è qualcosa che chiunque è sicuro di saper riconoscere quando la vede ed è un argomento di cui si discute volentieri con gran disinvoltura.
Ma provate a chiedere a chiunque di darvi una definizione precisa di bellezza e vedrete che la discussione cadrà ben presto nella stessa acrimonia riservata alle ferite morali più profonde, e questo soprattutto se si mira ad indagarne la natura, intesa qui come causa o provenienza.
La bellezza in effetti non solo è qualcosa ma è anche qualcosa che si trova da qualche parte. Se fosse semplicemente una qualità delle cose del mondo, la sua presenza o la sua assenza sarebbero criteri sufficienti per determinare sia la bellezza (in presentia) sia la bruttezza (in absentia).
Ma sebbene Kant e il senso comune riconoscano alla bellezza un sicuro criterio di Universalità, le eccezioni sono tante e tali da dubitarne. A livello statistico infatti, non sarebbe difficile dimostrare nei confronti di un tale giudizio, una distribuzione normale pronta a segnalare la presenza di vistose divergenze.
Due aspetti sono ancora oggi, come in passato, centrali nella definizione della bellezza: la sua relazione con le proporzioni e il suo legame con l’amore. Solo il secondo ci avvicina veramente alla sua essenza ma è sul primo che lo sguardo del mondo si è fissato.
Se la Moda è la pratica essenziale attraverso cui si generano e in cui refluiscono le relazioni tra gli oggetti del mondo e le forme storiche della soggettività, nel discorso contemporaneo della Moda, un posto privilegiato va riservato alle tecniche di produzione della bellezza.
È sorprendente quanto poco ci si sia occupati dal punto di vista psicoanalitico di un fenomeno così diffuso e organizzato come la chirurgia estetica e delle tecniche ancillari di produzione della bellezza. Lo ha fatto la psichiatria, che ha creduto di raccogliere le istanze più grossolane di devianza sotto l’etichetta di una pathologia pulchritudinis onnicomprensiva: il body dysmorphic disorder. Ma se esiste una patologia propria alla Bellezza, questa è molto più sottile e differenziata di quanto questa categoria clinica lasci intendere.
La prima difficoltà legata alla tecnica della bellezza è un’obiezione comune a tutte le tecniche e cioè l’obiezione che ogni tecnica dal momento della sua introduzione genera una domanda prima inesistente o, se si preferisce, rende manifesta una domanda prima invisibile.
Le domande invisibili non generano desiderio. Dal momento in cui il bisturi è stato messo in rapporto con la “cura” dell’imperfezione, l’intero campo di relazioni che legavano il corpo alla bellezza si è animato e trasformato.
Come un raggio di luce diffranto da un prisma, il corpo si è suddiviso in una collezione di oggetti, ciascuno affetto dalla sua particolare imperfezione. Il difetto, nello schermo animato dal desiderio si è fatto oggettivo e ha perso per sempre la sua indifferenza.
L’oggettività di questo difetto non è però altro che il diverso, inteso solo come distanza da un criterio ideale e misurabile.
Questa partizione è solo apparentemente anatomica, in realtà i limiti dei neo-segmenti in gioco non sono decisi dal bisturi ma dal linguaggio e dallo sguardo che se ne sono appropriati. Il discorso della tecnica come quello della scienza persegue l’unico obiettivo effettivamente realizzabile: normalizzare la molteplicità attraverso l’adozione di un criterio quantitativo e riproducibile.
La seconda difficoltà è specifica della chirurgia estetica: se gli artifici della tecnica sembrano vasti o smisurati, essi sono anche e sempre finiti. Da qui discende una delle caratteristiche più evidenti delle tecniche di riproduzione della bellezza: la chirurgia estetica produce somiglianze.
La strada seguita dalla tecnica è una sola ed è quella della ricerca delle proporzioni ma con una ulteriore difficoltà, c’è infatti una terza aporia nel rapporto tra tecnica e bellezza: il concetto di “soglia” ha fatto trapassare il qualitativo nel quantitativo e oggi non è più l’ideale classico delle proporzioni a dettare la via ma la “distanza” numerica dall’ideale.
In base a tale criterio la chirurgia estetica è pensata in uno di due modi possibili: o come estrazione della bellezza da un corpo, allo stesso modo in cui l’artista estrae una statua dal marmo indifferenziato, eliminando gli eccessi che la separano dalla forma finale, o come una creazione ex-novo. In entrambi i casi la bellezza è localizzata esclusivamente dal lato dell’oggetto, come una proprietà emergente dell’estensione, senza alcun ruolo soggettivo.
C’è forse un altro luogo dove localizzare la bellezza? Pare proprio di si: Platone nel Simposio ci ha fornito la mappa e Lacan vi ha scovato il sentiero.
Agatone nella sua eulogia di Eros, descrive il Dio come sorgente di ogni virtù e fra le tante non poteva certo fargli mancare la bellezza. Socrate però lo mette subito in difficoltà. Dopo avergli dimostrato che si desidera solo ciò che non si ha e che la natura degli oggetti del desiderio e dell’amore è quella della mancanza, lo mette all’angolo indicandogli la vera relazione tra Eros e Bellezza – a lui sfuggita durante il suo discorso – e cioè che Eros, proprio il Dio dell’Amore appena elogiato, “manca dunque di bellezza”.
La mancanza al cuore di Eros è la chiave della Bellezza: essa non è una caratteristica indipendente dell’oggetto ed è invece animata dal desiderio del soggetto che ama. La Bellezza è una terra di mezzo come Eros è il mediatore fra dei e uomini, ci dice Diotima, “un grande demone, giacché tutto ciò che è demoniaco è qualcosa di mezzo tra dio e mortale”.
Lacan farà di questa mancanza un oggetto speciale: prima un oggetto positivo, l’agalma, di cui dirà che è “un objet entre tous… sans équivalence avec les autres” e poi un oggetto propriamente mancante, l’oggetto causa del desiderio, entrambi rigorosamente localizzati sul versante del soggetto.
Ma allora, se sono l’agalma, l’oggetto speciale senza equivalenze e l’oggetto causa a configurare desiderio, amore e bellezza, non sarà la stessa Universalità dell’analitica del bello di cui Kant parla nella Critica del giudizio a diventare evanescente?
E se la bellezza passa dal lato del soggetto, allora il bisturi che cosa taglia?
È da qui che bisogna partire per riscrivere e definire una nuova patologia della bellezza.