Marika Soricone
Échein, ovvero “possedere”, è ciò che ritroviamo nel cuore etimologico del temine “Abito”. La sua traduzione si poggia su due sensi, transitivo ed intransitivo. Nel primo caso, quel “possedere” rimanda ad un “avere una forma”, il cui contrario, Stéresis, viene tradotto con privazione. Nel secondo caso, in senso intransitivo (houtòs échein), ritroviamo qualcosa riferibile al “possedersi”, inteso come un comportamento o un modo di essere che perdura nel tempo, stabile, inflessibile, rigoroso. Non a caso, nella lettura psicoanalitica, la funzione dell’abito si accosta a quella di un significante, un velo simbolico che risponde all’esigenza di “dar forma” al soggetto (alla sua nudità), all’impossibilità di rintracciare nel suo intimo qualcosa riferibile ad un’essenza, immutabile per l’appunto, alla domanda “chi sono io?”.
È così che l’abito va a rappresentare un conforto, un possibile trattamento dell’angoscia che abita il soggetto, abbracciando, rivestendo e confinando un fuori senso, il “senza rappresentazione”.
Si è riscontrato come le diverse strutture testimonino un modo diverso di far uso dell’abito: dalla tendenza alle collezioni, il cambiare spesso le vesti o l’angoscia del “non ho nulla da mettere” nell’isteria, alla riluttanza dell’ossessivo di indossare nuovi abiti e la sua predilezione per pochi di questi.
Nella storia, l’abito si fa sembiante e simbolo di appartenenza, che sia ad un ruolo sociale, ad un ceto, ad un’ideologia o alla propria scelta nella differenza dei sessi, incarnando un ordine simbolico. E la moda, nella storia, si è fatta specchio e portavoce di mutazioni a questo livello (le prime minigonne, gli abiti unisex), ritrovando incarnati nei nuovi tagli (della stoffa) rappresentazioni di rotture nell’ordine del sociale, nel suo discorso.
Se sino ad ora l’abito dell’uomo e l’abito della donna fungevano come supporto e garanzia della differenza tra i sessi (tanto che, mentre in italiano è utilizzata indifferentemente la parola abito, sia per l’uomo che per la donna, in alcune lingue non esiste lo stesso termine universale, ma un termine specifico a seconda del sesso dell’indossatore) ciò a cui si assiste oggi, in misura sempre crescente, è il rifiuto di una categorizzazione binaria della sessualità. Chiunque si cimenti in una piccola ricerca nel settore della moda non farà fatica a cimentarsi in sfilate-slogan in cui sfilano in passerella donne che vestono con abiti da uomo o uomini che vestono con abiti da donna (o che vengono scelti come testimonial di make-up). Si assiste ad una proliferazione di tentativi atti a sdoganare categorie standardizzate al fine di rivendicare un’identità sessuale scevra da etichette. Si assottiglia sempre più la linea di confine nell’assunzione del soggetto dell’essere uomo o donna, linee malleabili, evanescenti e nel contempo pullulano diverse nuove categorie dell’identità di genere: gender fluid, pansessuali, transgender, no-gender, polisessuale e così via. E a chi sostiene che vi è confusione e smarrimento, testimonianze sui social rispondono rivendicando che non si tratta affatto di questo. Come G. che afferma “non si tratta di confusione, ciò che non si comprende è che la fluidità è propria della mia identità”, o come P. che rifiuta di amare qualcuno in base al suo sesso: “ciò che per me conta è solo la persona, al di là che sia uomo o donna”.
Si testimonia di come l’era del fluido, segnata dall’evaporazione del Nome del Padre e dal fallimento della famiglia come veicolo di istanze culturali, si rifletta sul fenomeno dell’identità di genere. La funzione del padre è ciò che, mediante l’opera d’interdizione degli oggetti su cui si indirizza la pulsione e mediante l’investimento su un figlio di un desiderio che non sia anonimo, umanizza il soggetto e ne regolamenta il godimento, che cade sotto la mediazione con l’ideale dell’Io. La nostra epoca è segnata, e i nuovi sintomi lo testimoniano (attacchi di panico e dipendenze), dal declassamento del simbolico a favore di un godimento de-regolarizzato, assoluto, indifferenziato rispetto all’oggetto. Se queste nuove identificazioni rappresentano per alcuni soggetti nuove e valide soluzioni, per altri, la proliferazione indiscriminata degli oggetti di godimento nell’ambito della sessualità potrebbe rispondere e riflettere l’imperativo al godimento assoluto del discorso capitalista, rappresentando non tanto, quindi, una soluzione, quanto, invece, l’emersione di un sintomo o una mera identificazione con la categoria che nulla ha a che fare con la scelta del soggetto o con un annodamento tra godimento e amore. Il compito della psicoanalisi e degli psicoanalisti rimane quello di rispondere all’unicità del soggetto, nelle mura del proprio studio, valutando gli annodamenti propri di quel caso particolare.