Dal gruppo al cartello. Dal leader al più-Uno?[1]
Guy Trobas
Mi interrogo regolarmente sull’invenzione del cartello da parte di Lacan. Tra queste domande, ce n’è una che riguarda direttamente la nostra esperienza di cartellizzanti – un’esperienza recente poiché risale, di fatto, alla creazione dell’École de la Cause freudienne – una domanda che potrebbe essere formulata così: è possibile porre dei segni per situare quella che sarebbe una pratica del più-uno? Sottolineiamo che questa domanda implica logicamente una presa di posizione, che è effettivamente possibile parlare di una pratica del più-uno, che è pertinente rispetto alla concezione del cartello in Lacan. Del resto, questa valutazione, che, da parte mia, traggo dalle formulazioni che diede Lacan nel 1964 e nel 1980, non è sempre stata evidente. Possiamo riferirci al vivacissimo dibattito sul più-uno, che Lacan aveva suscitato, un po’ a sorpresa, al Convegno della Ex-EFP nell’aprile del 1975.[2]
In questo dibattito, ciò che è apparso come una roccia – ciò che la Massenpsychologie stava facendo, è una specie di ritornello sul più-uno: il più-uno come una funzione ternaria, come una funzione simbolica idealizzata a livello del gruppo. Il fatto di presentare il più-uno in questo modo, questa idealizzazione, alimenta la riluttanza assolutamente manifesta dei partecipanti a questo dibattito a far incarnare questa funzione, come se questa funzione fosse totalmente al di là di una persona concreta, che sarebbe meglio non incarnare. Incarnarlo – questo timore è molto chiaro – sarebbe rischiare di sconfinare nelle pratiche dei maestri o di pseudo-analisi. Molti partecipanti a questo dibattito erano d’accordo, o fare del più-uno una specie di terzo assente che guidasse i discorsi dei cartellizzanti, o farne un terzo incarnato alternativamente dai diversi membri, ruoterebbe, perché questa funzione di più-uno assumerebbe diverse figure come Lacan, il controllore, la clinica, la Scuola, lo scrittore, la donna, la metafora… In questo modo di vedere le cose – eccessivamente sordo a ciò che Lacan continuava a ripetere, cioè che il più-uno deve essere qualcuno, una persona, non un’assenza ma una presenza – la questione della pratica del più-uno era radicalmente risolta: nessun più-uno isolabile in quanto tale, dunque, nessuna pratica, se è intesa qui nel senso di un’azione regolata, strutturata, dipendente da un soggetto. D’altra parte, si suppone che ogni soggetto del cartello mantenga una relazione con una o due figure di più-uno nella forma di una funzione di direzione.
Almeno, in questo dibattito del ‘75, c’è anche una piccola minoranza di relatori che accetta l’idea di un più-uno incarnato, designato, ma sempre in questa stessa prospettiva del terzo, di una direzione, di un Altro referenziale. Il più-uno acquista dunque l’attributo di una pratica? Niente affatto! Diciamo che la sua presenza diventa semplicemente pratica, comoda, nel senso che il fatto che ci sia renderebbe più manifesta nella mente delle persone la funzione di terzo, di quello a cui sono chiamati a ricorrere. Questo più-uno permetterebbe di mantenere la ricerca dei partecipanti superando gli ostacoli del bla-bla-bla e, più in generale, quelli degli effetti di gruppo. È in relazione a questi effetti di gruppo che questi partecipanti chiedono al più-uno di non “aggiungere nulla”, cioè di stare tranquillo. Quindi, una pratica del più-uno sarebbe una pratica di tranquillità.
Ciò che abbiamo avuto in questo dibattito, al di là delle varianti che abbiamo appena riassunto, è, per quanto riguarda il gruppo, una ripresa, un’applicazione coerente, ma parzialmente e totalmente prodotta nell’insegnamento di Lacan. Chiaramente: poiché è una forma sociale, poiché alimenta l’immaginario in modo rilevante, poiché è in grado di smuovere ciò che ostacola l’attesa elaborazione di un lavoro comune in nome della psicoanalisi, ricorriamo allora all’aiuto della funzione simbolica, come ci viene mostrato nello schema L. Lacan interroga le persone dicendo: per voi, il cartello, il più-uno, che cos’è in funzione del mio insegnamento? Ebbene, nel 1975, la gente risponde: quello del 1953, lo schema L. Ciò che ci si aspetta è l’oscillazione dell’asse A—S, noto come antidoto all’intersoggettività di gruppo rappresentata dall’asse a—a’. Si può dire che su questo asse a—a’, la cosiddetta intersoggettività causerebbe in relazione al soggetto del gruppo, il gruppo stesso, che universalizzerebbe questi soggetti in un fantasma comune. Al contrario, mantenendo il grande Altro come garante soggettivo, ci sarebbe la possibilità per ogni soggetto di avere la particolarità dei significanti che lo rappresentano davanti all’altro significante, quello della direzione, cioè il significante che connota per quel soggetto la sua relazione al campo freudiano, restituitogli in eco dal suo lavoro.
Questo schema non è infondato: offre anche una buona lettura di questi momenti del cartello che si traducono per questa o quella persona in una nuova soggettivazione del problema, del sapere che sta mettendo in discussione. Così, una cartellizzante afferma, a proposito delle condizioni del transfert di lavoro che costituiva il suo tema: “Ho trovato un’altra formulazione della mia domanda”. Questo è un modo di mettere in gioco la catena significante nel lavoro fatto in cartello, che le permette di soggettivare in un altro modo ciò che la interroga. Questa prospettiva che ho letto dallo schema L potrebbe anche essere riassunta con lo slogan: “metaforizziamo, metaforizziamo”. La cosa straordinaria qui è vedere che, venti anni dopo la sua invenzione, lo schema L è rimasto il riferimento principale.
Questa posizione, centrale nella produzione di significanti per ogni soggetto nel cartello, nasce da una “promozione dell’isterizzazione”, dal discorso isterico. Questo ci permette di cogliere il suo lato buono e il suo lato cattivo in materia di cartello. Il suo lato buono è il suo orientamento verso il discorso freudiano come grande Altro, come terzo del gruppo; dove gli effetti di gruppo inducono i soggetti a installare, in posizione dominante nel loro discorso, alcuni significanti-padrone o qualche sapere dominante, l’isterizzazione, cioè il suo lato destituente, ostacola questa installazione in posizione dominante in un discorso, sia del significante-padrone che del sapere. Tuttavia, se questo coté destituente dei padroni e dei padroncini non si prolunga nel discorso analitico, a forza e tramite le destituzioni, è un lato di conservazione dell’ideale, di idealizzazione frenetica; l’operazione dell’isterica, nei confronti del padrone, è di destituirlo per salvaguardare il suo ideale di padrone di un marchio. È qui che si presenta il lato negativo delle cose, poiché questa idealizzazione è presa dal gruppo in quanto tale, quando funziona come A e, d’altra parte, correlativamente, i suoi stessi effetti di funzionamento installano in questo gruppo un fantasma collettivo, una collettivizzazione di soggetti con il fantasma. Anche se l’isterizzazione, nel gruppo, produce questa coalescenza tra un ideale e un fantasma collettivo, come ha mostrato Freud, c’è una tendenza dalla suggestione all’ipnosi. È questo lato negativo delle cose che, per i procuratori del soggetto che sono gli psicosociologi, funge da trampolino per la loro pratica di gruppo, come dicono loro.
Si tratta ora di sapere cosa decide l’orientamento dell’isterizzazione – che sottoponiamo alla nostra interrogazione iniziale sulla pratica del più-uno. Si può già sottolineare che una promozione troppo ingenua dell’isterizzazione, anche della metafora, è il correlato di questa idea secondo cui la funzione del più-uno sia semplicemente sufficiente con una presenza incarnata in una direzione, anche una presenza muta, neutra. Questa credenza ha il suo equivalente nel campo della psicoanalisi in intensione, quando il transfert viene trasformato in un puro artefatto, automatico, di accrescimento, quando il setting analitico viene trasformato in ciò che causa il transfert. C’è una versione più recente di questo più-uno: se il più-uno è incarnato come tale, allora che sia abbastanza omogeneo al gruppo, che non si senta autorizzato a fare altro che quello che ogni membro fa nel cartello.
In effetti, questo approccio è una tesi sulla non-pratica specifica del più-uno, ed è talvolta accompagnato da argomenti da prendere in considerazione. Il più comune consiste nel far notare che se c’è solo la pratica di discorso, allora è chiaro che il più-uno non è in un discorso particolare: né analizzante, né analista, né universitario, né padrone. Sia come sia. Questa obiezione parte, per lo meno, da questo presupposto, contrario all’insegnamento di Lacan, che un soggetto può collocarsi in questo o quel discorso fino a confondersi. In effetti, ogni pratica si definisce, contrariamente all’etica, non come la pratica attesa da un discorso, ma come il modo in cui un soggetto è coinvolto nella circolazione dei discorsi, o addirittura interviene in questa circolazione. Così, la questione della pratica discorsiva del più-uno resta intatta.
Un altro argomento si basa sulla preoccupazione che il più-uno sia solo più-uno in virtù del fatto che occupa questo posto, per e a causa degli altri quattro, scelta che implicherebbe una nomina per le cose essenziali. Precisamente, l’effetto di questa nomina non sarebbe tanto a livello della pratica della persona di cui è oggetto, quanto a livello del gruppo stesso, che conterrebbe d’ora in poi un elemento eterogeneo, non incluso nel conto del gruppo, che del resto è indicato dal matema del cartello: X + 1. È abbastanza incontestabile che il semplice fatto di scegliere un più-uno, con ciò che questo implica nel registro della domanda, introduce un ostacolo all’omogeneizzazione del gruppo; per essere precisi, un ostacolo sul piano del simbolico, così come sul piano dell’immaginario il più-uno testimonia che un effetto di colla ha saldato i quattro soggetti particolari, effetto di colla che si traduce nel loro accordo su un nome a cui faranno questa domanda. Questo ragionamento porta a questo: il più-uno, in quanto qualcuno, è sovvertito dalla nomina e, in un certo senso, è nonostante sé che ostacola l’Uno del gruppo; si potrebbe parlare più di effetto del più-uno che della pratica del più-uno.
Omogeneo agli altri soggetti in termini di ciò che farebbe, il più-uno sarebbe eterogeneo in quanto a una funzione simbolica. Si nota che troviamo in questo argomento qualcosa dell’idealismo evocato sopra: per una sorta di automatismo intrinseco a un dispositivo globalmente simbolico in cui il più-uno si distinguerebbe per la sua nomina, avrebbe la possibilità di mettere in scacco l’immaginario di gruppo, di mettere in scacco ciò che in qualsiasi gruppo tende ad assegnare ai soggetti una residenza in un discorso, di fermare la circolazione dei discorsi.
Da tutto ciò possiamo trarre una conclusione parziale sotto forma di domanda: perché c’è stata, e senza dubbio c’è ancora, a volte, una tale insistenza nell’evacuare l’idea di una pratica correlativa alla funzione del più-uno? Questa insistenza ci interroga tanto più che le dichiarazioni di Lacan non vanno in questa direzione. Torniamo alle formulazioni del 1964 o del 1980, e noteremo che Lacan assegna sempre un incarico specifico al più-uno, incarico che si trova rettificato, del resto, dalla prima formulazione alla seconda. È probabile che questa insistenza, questo rifiuto dell’idea della pratica del più-uno, sia dovuto a una denegazione riguardo a ciò che Lacan chiama “questa necessità che si cristallizza nel funzionamento di ogni gruppo”. Questa denegazione potrebbe essere letta come: “il cartello non deve essere un gruppo”, o “nessuna leadership qui”. Questo è il tipo di formulazione che si trova nel famoso dibattito del 1975; uno dei partecipanti, noto per essere uno di quelli che avevano introdotto un mandarinato autoritario nella ex EFP, dichiarò così il principio del gioco: “Ogni responsabile e ogni direzione nel senso di un atteggiamento padronale di uno degli elementi del cartello è escluso a priori”. È un incantesimo che non manca di sale nell’affermazione di questa persona, ma che denota un disagio e una resistenza: legata al pensiero che il più-uno possa occupare il posto tradizionalmente occupato dal leader. Un altro partecipante al dibattito, sulla base di questa stessa preoccupazione, si è spinto fino a giustificare il fatto che il posto del più-uno rimanga vuoto perché: “finché è incarnato, dà sempre un capo”. Più recentemente, qualcuno ha anche detto: “il più-uno si colloca all’opposto di qualsiasi leader immaginario”. Questo tipo di denegazione benintenzionata porta ad evitare i problemi che comporta la pratica del più-uno, e porta al rifiuto illusorio di qualsiasi intervento in quanto più-uno, sino ad un andare contro il più-uno, come se potesse essere un ostacolo sulla china della leadership.
Questo non è, secondo me, l’orientamento dell’operazione che Lacan ci suggerisce con la sua invenzione del cartello. Lungi dal metterlo sul conto di una denegazione, è necessario, soprattutto qui, chiedersi perché Lacan ha ripreso il dispositivo del gruppo, del gruppo ristretto, per farne uno strumento privilegiato del lavoro in comune degli analisti e l’organo di base della sua Scuola. Questa domanda merita una risposta, perché Lacan non solo è stato uno dei primi in Francia a riferirsi ai lavori della psicosociologia dei gruppi – basti pensare al suo articolo del 1947 sulla psichiatria inglese – ma, inoltre, molti passaggi della sua opera scritta, negli Scritti, mostrano che sapeva dove si trovava rispetto al piccolo gruppo. Aveva perfettamente capito che il piccolo gruppo è soprattutto un dispositivo sociale al servizio del discorso del padrone.
Si tratta di qualcosa il cui momento di emergenza è perfettamente localizzabile storicamente: verso la fine degli anni venti, all’inizio degli anni trenta, negli Stati Uniti. È il periodo in cui questa forma purificata di discorso universitario, la OSL (Organizzazione Scientifica del Lavoro, frutto del delirio tayloriano), ha incontrato problemi che ne hanno minacciato le fondamenta: mentre aveva avuto successo, ad un certo punto all’inizio del secolo, sia in termini di produttività e di recupero del plusvalore, sia in termini di restituzione allo schiavo moderno di un certo godimento, al prezzo di una omogeneizzazione e di una standardizzazione di questo godimento, questa OSL si è basata su ciò che ha rimesso in discussione questa restituzione del godimento allo schiavo.
C’è un ostacolo che ha fatto rivivere il luogo della confisca del godimento, precisamente nella forma della crisi del ‘29, una crisi finanziaria, è vero, ma che si è evoluta in una crisi sociale, poi in una crisi gravissima che ha colpito le forze produttive, prima mettendo alla gogna i disoccupati – quindi, turbamento del godimento – poi seminando il disordine nelle officine: la produttività scende così vertiginosamente. È qui che entra in gioco la logica del discorso del padrone, vale a dire che lo schiavo doveva avere un sapere per raddrizzare la barra, un sapere la cui estrazione avrebbe permesso di regolare il disordine del suo godimento.
Nasce così la psicosociologia, sotto il nome di human relations, e il piccolo gruppo, che è la sua prole preferita, è proprio ciò che riporta al lavoro il sapere dello schiavo moderno. La stessa cosa si ritrova all’inizio di questo movimento di cui Lacan ha fatto il supporto della trasmutazione del sapere dello schiavo, nel discorso del padrone, nel sapere del padrone nel discorso dell’università (in gioco sia nella burocrazia che nell’organizzazione del lavoro): voglio parlare qui del filosofo nella persona di Elton Mayo, che era nella prima formazione.
Ciò che è abbastanza chiaro, a livello del piccolo gruppo, è che il leader è l’incarnazione del padrone. Sotto questo titolo, non si può evitare di fare l’approssimazione tra le caratteristiche della versione idealizzata del leader, il leader democratico, e la versione idealizzata dell’Io in psicoanalisi, quello che si chiama l’Io autonomo, che è anche, d’altra parte, l’Io forte; lo stesso profilo del soggetto si trova nella versione dell’Io secondo la psicologia omonima e in quella del leader democratico secondo la psicosociologia. È qui che Lacan ha indicato nella psicoanalisi, a proposito dell’Io forte, il ritorno del discorso del padrone. Questo è il livello in cui dobbiamo situare l’immaginario di gruppo, sul lato degli effetti del discorso del padrone, dove, come diceva Lacan in Radiofonia: “è il plus-godere che soddisfa il soggetto per sostenere solo la realtà del fantasma”. Questa è la misura dell’impotenza speciale del padrone, e quindi del gruppo, nella sua relazione con la verità. Questa impotenza si rovescia, a livello dell’io e del leader, in una particolare affinità con il potere e con l’ignoranza.
Macchina egoica, il gruppo, allora, è anche una macchina per produrre un ginepraio discorsivo nella padronanza, che, come ho detto prima, comporta una collettivizzazione dei soggetti in un fantasma comune. Tocchiamo, qui, con un pregiudizio, che il cartello, come gruppo, ha un aspetto di incompatibilità con il discorso psicoanalitico, verificato dal fatto che il discorso psicoanalitico implica un legame sociale fuori dal gruppo. Ma questo non è sufficiente per illuminarci sull’interesse per il cartello.
Questo interesse può essere dedotto da un altro chiarimento che Lacan ci dà, a metà della pagina 31 de Lo Stordito, sulla relazione dello psicoanalista con il gruppo. Questa relazione può essere letta a partire dalle conseguenze che si possono trarre in termini di soggettività dell’analista, dal luogo in cui il suo atto assume il suo valore psicoanalitico. Questo luogo è quello del sembiante, in cui sostiene la funzione dell’oggetto a, lo stesso oggetto che nella propria analisi ha trovato solo nel suo “corpo di difesa”. Per mezzo del quale, in questo luogo che richiama la sua etica, il suo atto, l’analista si trova in una posizione di avversione o di orrore. Aggiungerei che questo luogo è anche una posizione di solitudine, radicale, nella misura in cui nessun significante può rappresentarlo come un soggetto in una catena. È quindi comprensibile che ci sia una china che attira l’analista verso il gruppo. È una china che gli permette di rovesciare il disagio dell’avversione e della solitudine in comodità, nella comodità del gruppo. Perché questa comodità? Perché, nel suo aspetto di isterizzazione, il gruppo offre una cura di significanti, proprio laddove c’era un impossibile da rappresentare. Il secondo aspetto della comodità è quella della padronanza; il gruppo offre la migliore sistemazione dell’oggetto impossibile da sopportare – e molto meglio che nel discorso isterico – come indica l’equivalenza fatta da Lacan tra il discorso del padrone e il discorso dell’inconscio. Questa migliore sistemazione, riunita in un fantasma collettivo, è il cemento del gruppo, così come la sua oscenità. È, in altre parole, nel punto in cui il gruppo si fonda su un reale sconosciuto, un reale tale che è sostenuto dal discorso del padrone. Per quanto riguarda l’effetto di gruppo, è questa aspirazione all’inversione del reale nell’immaginario.
Quando Lacan inventò il cartello, proprio sulla scia del suo oggetto a, e nel mezzo dell’inflazione delle pratiche di gruppo, dovette porsi alcune domande. Non è una denegazione, il cartello non è un anti-gruppo, o un non-gruppo, o un gruppo trasparente a se stesso; il più-uno non è una negazione del leader, un anti-leader…. L’operazione di Lacan è un giro di prospettiva. Consideriamolo nel modo in cui Lacan ha stabilito il discorso psicoanalitico: lo ha stabilito a partire dal discorso del padrone, per inversione. Lacan fa un uso del significante, di significanti nuovi, in modo tale che questi significanti rivelino ciò che nascondono nella loro forma, cioè che esiste una consustanzialità tra il reale e l’immaginario, una continuità troppo spesso dimenticata, il che significa che partendo dal secondo si può, in certe circostanze, arrivare al primo. In questo senso, il cartello mi sembra un dispositivo attraverso cui non solo si pone un ostacolo alla china degli analisti a consolarsi nel gruppo, a nascondere il reale del gruppo che lo istituisce attraverso l’immaginario, ma è chiamato anche ad essere un dispositivo che incita in cui l’analista sarebbe provocato a interrogarsi su ciò che dell’immaginario del gruppo è necessariamente istituito in un reale.
Se non c’è modo di sfuggire a “questa necessità che si cristallizza con il funzionamento di ogni gruppo”, c’è un mezzo per render conto di ciò che crea questa necessità. Questo mezzo non è semplicemente destituire il gruppo, i suoi membri, che hanno un indirizzo nel senso simbolico del termine. Si tratta di installare un significante nuovo, di produrre un significante nuovo, come si produce il ferro, sul punto di massima densità immaginaria, nella misura in cui fa anche segno di un reale. Concretamente, a livello del gruppo, questo punto di massima densità immaginaria, di estremo invischiamento dei soggetti, che è, come aveva già notato Freud, il nodo identificativo del leader e del reale di cui fa segno, è ciò che Lacan chiama “l’impossibile da dissolvere da ogni gruppo”. Quanto al significante nuovo che Lacan installa in questo punto, il significante più-uno, esso fa buco, fa un’incisione nell’immaginario in modo tale che permette, precisamente, di cogliere dove può operare la trasformazione dell’immaginario in reale. Precisiamo: lo permette perché non è nel campo del sapere, indipendentemente dal significante ma, al contrario, un significante preso nella rete dei significanti dell’insegnamento di Lacan, come lui stesso ha precisato nel 1975. Il più-uno rimanda a ciò che Lacan ha elaborato prima in termini di cifratura, poi in termini di nodo borromeo; vale a dire che il significante, utilizzato, allora, in questo punto in cui il leader si installa, ha, tutto in una volta, un effetto interpretativo, un effetto di sapere.
Correlativamente, l’introduzione di questo significante così circoscritto ci dà una pietra miliare per una pratica del più-uno: non deve pretendere di operare da una posizione che non sarebbe quella della leadership; al contrario, deve assumerla, partire da essa per cercare, in certi momenti, di leggere gli effetti di cui è il prodotto e, di conseguenza, limitare questi effetti.
Non pretendere di operare da una posizione che non sarebbe quella di un leader è perfettamente in linea con lo statuto che Lacan attribuiva al più-uno nel 1964. Questo statuto implica una pratica, cito, “di selezione, di discussione, e del fine da riservare al lavoro di ciascuno”, sono alcune delle caratteristiche principali del profilo del leader democratico come delineato da Lippit e White, così come da Maier. Il più-uno, se non viene confuso con l’effetto leader, funziona nel frattempo. Ma, ancora nel 1964, Lacan introduce già dei correttivi affinché l’esperienza sia, appunto, d’insegnamento: designato a partire dal carbone grezzo, il più-uno si convertirà dopo il momento di concludere, niente lo assicura in questa esperienza di più-uno, durante e dopo questo cartello, in una presenza della sua partecipazione ad altri cartelli. Questa è, in sostanza, la traduzione del principio di equivalenza tra i cartellizzanti di fronte al discorso psicoanalitico. E ciò che insegna qui è precisamente l’imposizione di un momento di concludere, di una durata regolata del cartello, di ciò che questa imposizione implica, da un lato, meno un’esperienza eternizzata, come nell’ex-EFP, che un’esperienza dedotta dalla serie, e, dall’altro, un fruttuoso effetto di anticipazione nel progresso del lavoro.
Si potrebbe pensare, naturalmente, che questi limiti al consolidamento del gruppo possono benissimo essere efficienti senza che il più-uno intervenga in nulla. Questo significa ignorare la misura in cui gli effetti di gruppo possono introdurre una a-temporalità nel suo funzionamento, un ritmo perfettamente ignaro del compito da svolgere. Il gioco di anticipazione del momento di concludere è qui un punto di appoggio essenziale per l’elaborazione degli interventi del più-uno, per la sua pratica.
Detto questo, è con la formalizzazione affinata dei cartelli, data nel 1980, e approfittando del fallimento della EFP in materia, che Lacan ha veramente dato il suo orientamento specifico alla pratica del più-uno. Lo ha fatto non fornendo, come nel 1964, alcune correzioni riguardanti il gruppo in quanto tale, ma fornendo un’apprezzabile rettifica, una nuova accentuazione riguardante ciò che ha chiamato addirittura il compito del più-uno. Quest’ultimo è infatti chiaramente incentrato sul funzionamento, sulla vita del cartello in quanto distinta dall’organizzazione e dalla produzione. “Vegliare sugli effetti interni all’impresa e provocare la loro elaborazione”, dice Lacan, il che si ricollega all’ultimo punto della formalizzazione affinata, quello della “messa a nudo dei risultati, così come delle crisi di lavoro”.
Questo affinamento, questa accentuazione, ci danno delle pietre miliari preziose per la pratica del più-uno, pietre miliari che, mi sembra, circoscrivono un’operazione di discorso.
Prendiamo questa messa a nudo È molto più di quella direzione di cui abbiamo parlato sopra, che è rimasta interamente nel registro privato. La messa a nudo è il passaggio dal privato del gruppo al pubblico, cioè la messa in scena, né più né meno, di una funzione di controllo rispetto a ciò che ha operato nel gruppo, rispetto ai suoi effetti di collettivizzazione e ai suoi effetti di discorso. Per dirla in un altro modo, potremmo dire che è l’intimità del gruppo che lo allontana dal discorso come legame sociale; è la messa a nudo del gruppo che lo rende, istituendo un Altro, non più artificiale ma, di fatto, in grado di restituire i suoi messaggi ai soggetti.
Che questa messa a nudo possa essere uno degli incitamenti del più-uno è un po’ ovvio. Questo è, in un certo senso, il secondo tempo di un’altra pietra miliare, che è quella che riassume la formula “provocare l’elaborazione”. Cos’è questo se non un’operazione interna al cartello che punta a una Durcharbeitung, che, si sa, non va senza un certo eccesso? È d’altronde ciò che indica il termine “provocare” che connota questa singolare chiamata al soggetto il cui effetto è quello di incitarlo – come si dice – a uscire da sé (etimologicamente “provocare” si riferisce al chiamare dall’esterno). Nel quadro attuale, quello del cartello, “provocare” indica che ciò che ci si aspetta dal più-uno è qualche iniziativa, qualche luce da parte sua, che renderebbe possibile, ripristinando autenticamente la funzione dell’Altro, ripristinare il discorso; questo movimento è anche quello di un cambio di discorso, cambio di cui Lacan precisa che non è, precisamente, un’operazione continua ma una precipitazione in un movimento di bilancia.
In sostanza, se l’effetto leader è piacevole e la garanzia di una concentrazione del discorso in una sola delle sue modalità, al punto che spinge alla sua estinzione nel bla-bla-bla, il più-uno avrebbe il compito di annullare questa garanzia. In altre parole, se il lavoro di gruppo esclude il discorso psicoanalitico in quanto tale, è sostenibile pensare che il cartello, che il più-uno e la sua provocazione, possano ristabilirlo per un effetto di cambio del discorso; e nella misura in cui questo effetto è correlativo all’emergere dell’oggetto, abbiamo qui una nuova possibilità: quella dell’interrogazione, quella dell’avvicinamento, del reale in causa nel gruppo. In un certo senso, in conclusione, potremmo riprendere per il più-uno questa funzione che Lacan attribuiva al cartello in relazione alla Scuola: una funzione di cerniera.
Traduzione: Adele Succetti
[1] Conferenza pubblicata in Travaux nº3, 1988. Pubblicata nella rivista Más Uno Nº 1. EOL. luglio 1996.
[2] Un riassunto dettagliato di questo dibattito si trova nelle Lettres de l’EFP n. 18. Fonte: https://www.wapol.org/es/las_escuelas/TemplateArticulo.asp?intTipoPagina=4&intPublicacion=10&intEdicion=3&intIdiomaPublicacion=1&intArticulo=297&intIdiomaArticulo=1