Barbara Aramini
La proposta per la costituzione del cartello lampo metteva in campo due aspetti cruciali: il caso e il tempo. Entro un certo limite era necessario decidere e comunicare il tema da lavorare e il caso avrebbe scelto i “quattro più uno” da mettere al lavoro. Nessun asse muoveva il mio interesse in modo particolare. La scelta sembrava essere il frutto della fretta: non si può far attendere. Solo a lavori avviati mi è stato meno opaco, meno nebuloso, il legame tra il tema scelto “formazione e trasmissione” e la mia questione che spingeva in quella direzione.
Il primo incontro ha circoscritto la non linearità, la non obbligatorietà, del passaggio dalla formazione alla trasmissione. Nel vasto campo del sapere si può studiare e formarsi senza sosta e non passare mai al piano della trasmissione. Il sapere può rimanere un fatto privato. Inoltre, seguendo Freud e Lacan, si chiariva la domanda: cosa vuol dire trasmettere il sapere psicoanalitico, un sapere strettamente annodato alla clinica.
Il testo che mi orientava era il Seminario X, L’angoscia. Da pagina diciannove, Lacan affronta la questione dell’insegnamento. “L’analista interviene in effetti su quel tempo così essenziale su cui ho già posto l’accento a più riprese, a partire da diversi soggetti del verbo: egli non sapeva, io non sapevo. […] Rispetto a questo non si sapeva si presume che l’analista sappia qualcosa. […] quello che l’analista sa, che cosa significa insegnarlo? […] Per il solo fatto di avere a che fare con questa materia – materia del mio uditorio, materia del mio oggetto di insegnamento -, sarò condotto a riferirmi all’esperienza comune, quella grazie a cui si stabilisce qualsiasi comunicazione insegnante. Il che vuol dire che non posso restare nella pura posizione che prima ho chiamato interpretante, ma devo passare a una posizione comunicante più ampia e addentrarmi nel terreno del far-comprendere, e dunque fare appello in voi a un’esperienza che va ben oltre la stretta esperienza analitica.”[1] Poco righe dopo, l’invito a non credere troppo a quello che si può comprendere.
Sette anni più tardi, in chiusura del congresso dell’École freudienne de Paris (19 aprile 1970), Lacan dirà che “l’insegnante si produce a livello del soggetto.”[2] Riprendendo i discorsi e le permutazioni dei posti, conclude che il discorso psicoanalitico porta lo psicoanalista, preso nel tentativo di insegnare, verso la posizione psicoanalizzante: ciò che produce non è “padroneggiabile”.
Quell’egli non sapeva, io non sapevo ha permesso un nuovo annodamento tra i tre registri. Un racconto materno, traumatico, dell’infanzia, mentre scrivevo il primo tema assegnato dalla maestra, ha annodato l’ostinazione a sapere – come tentativo sempre fallito di cancellare il “non sapevo” materno – con l’impossibilità di scrivere qualsiasi cosa del sapere appreso. Il “non lo sapeva” marchiava il soggetto e impediva la scrittura. Nessun sapere appreso era mai abbastanza. Il cartello “formazione e trasmissione” quindi è stato un punto di precipitazione sulla questione del sapere articolato all’attesa.
Nella nota editoriale a La Psicoanalisi n˚ 38, Antonio Di Ciaccia riprende, con lo scritto “Lacan e la trasmissione della psicoanalisi”, la questione, trattata da Lacan nell’intervento conclusivo del nono Congresso dell’École freudienne de Paris (6-9 luglio 1978) della trasmissione della psicoanalisi. “Che cosa fa sì che dopo essere stato analizzante uno diventa psicoanalista?”[3] Lacan nella “Proposta del 9 ottobre” presenta la passe come la possibilità per la psicoanalisi di essere trasmessa. Nel 1978, riprendendo le parole dette a Lille, Lacan ritorna sulla propria delusione: la passe non dice nulla del passaggio da analizzante ad analista; dice qualcosa della traversata da analizzante ad analizzato, ma non chiarisce il movimento alla posizione di psicoanalista. “La passe dice dunque se qualcuno è stato psicoanalizzato, ma non dice nulla della trasmissione, né se l’ex analizzante, ormai psicoanalizzato, possa autorizzarsi secondo la logica dell’inconscio a essere psicoanalista”[4]. La passe quindi non è la stella polare che orienta il cammino della trasmissione della psicoanalisi. Si diventa psicoanalisti a partire dalla propria analisi e allora cosa vuol dire la trasmissione del sapere psicoanalitico? Cito Di Ciaccia: “Vuol dire poter enucleare dall’esperienza analitica un sapere che abbia un valore universale e universalizzabile, un sapere, potremmo dire, che sia il più vicino possibile al discorso scientifico. […] Solo un sapere universale assicura una vera e propria trasmissione. Ora un sapere universale è agli antipodi rispetto al sapere analitico. Per questo motivo Lacan arriva ad affermare che «la psicoanalisi è intrasmissibile»”[5]. Ma, come ne “L’impero della luce” di René Magritte, c’è un punto di luce che illumina il territorio dell’intrasmissibile: Lacan delinea l’impossibilità di trasmettere il sapere psicoanalitico in quanto sapere non universalizzabile, ma mostra il sentiero che può far sopravvivere la psicoanalisi. Ogni analista deve reinventare, non arbitrariamente, la psicoanalisi e darne conto “rispetto alla logica dell’inconscio”.[6]
[1] J. Lacan, 1962-1963, Il Seminario, libro X, L’angoscia, Einaudi, Torino, 2007, pp.19-20.
[2] . Lacan, 1970, “Allocuzione sull’insegnamento”, in Altri Scritti, Einaudi, Torino, 2013, p. 296.
[3] A. Di Ciaccia, “Lacan e la trasmissione della psicoanalisi”, in La Psicoanalisi, n˚ 38, Astrolabio, Roma, 2005, p. 8.
[4] Cfr. http://www.lapsicoanalisi.it/la-psicoanalisi-n-38/
[5] A. Di Ciaccia, “Lacan e la trasmissione della psicoanalisi”, in La Psicoanalisi, n˚ 38, Astrolabio, Roma, 2005, p. 9.
[6] Ibidem.