Cristiano Lastrucci[1]
Un soggetto nevrotico trova, con il tempo, una diminuzione della sofferenza. La ripetizione del sintomo sembra invece collocarsi in una posizione atemporale, in cui l’elaborazione di senso non sortisce su di essa particolari effetti. Lacan lo dice in questi termini[2]: «Chiamo sintomo ciò che viene dal reale. Ciò vuol dire che si presenta come un pesciolino il cui becco vorace si richiude solo mettendo del senso sotto i denti. Allora delle due l’una: o questo lo fa proliferare (…) oppure crepa. Sarebbe meglio, e ci dovremmo sforzare per ottenerlo, che il reale del sintomo crepasse; questa è la questione: come fare?».
La nostra soddisfazione pulsionale passa attraverso la domanda e questa a sua volta deve porsi, ad un certo punto, attraverso l’uso del linguaggio, attraverso l’uso del significante. Il significante non è soltanto una parola o un testo, ma è un segno. Il soggetto nevrotico identifica il proprio soddisfacimento pulsionale ad un determinato segno, un significante S1 che lo segna. Direi che questo è il trauma, il trauma che il linguaggio crea nel corpo dell’essere umano. Da quel momento il soggetto ricercherà incessantemente di ripetere, suo malgrado, perché lo fa in maniera automatica, questo soddisfacimento pulsionale. Questa ricerca però sarà vana, perché la pulsione non verrà mai soddisfatta. Per questo il circuito si ripete. Tutto ciò accade perché cifriamo. In questo consiste sostanzialmente l’inconscio: «La cosa che ha da sapere l’analista, è che c’è uno che non calcola, né pensa, né giudica, ma che cifra. E questo è l’inconscio.»[3] Jacques-Alain Miller mette dunque in evidenza come l’inconscio in sé interpreti e che quindi la nostra pratica non deve andare nella direzione di interpretare ciò che è già stato interpretato, in quanto: «Quando l’interpretazione si fa seguace dell’inconscio (…) quando si modula sulla lettura delle formazioni dell’inconscio, non fa altro che nutrire questo delirio. Là dove invece bisogna affamarlo. (…) Quindi la pratica-post interpretativa non si orienta con la punteggiatura, ma con il taglio»[4].
Riporto una vignetta clinica di un caso pubblicato di Antonio di Ciaccia[5]. Una donna va da lui per cominciare una seconda analisi, dopo una prima tranche fatta con una psicoanalista dell’IPA. La prima analisi era iniziata a causa della separazione con un uomo, una relazione definita dalla paziente come “naturale” tanto era perfetta. La prima analisi doveva servire a dimenticarlo e permettersi altri rapporti. Ciò accade, però questi si moltiplicano senza arrestarsi. Decide dunque di chiedere un’altra analisi ad un uomo. Durante questo secondo percorso trova un uomo, se ne innamora e vuole smettere l’analisi. Questo sarà il tema di diverse sedute. Nell’ultima della serie l’intervento dell’analista: «“Niente a che vedere”. Così ho terminato una seduta nella cura di una giovane donna. In un primo momento rimasta sdraiata sul divano interdetta e silenziosa. L’aspettavo tranquillamente di fronte alla porta. “Perché?” mi disse uscendo, dopo essersi alzata lentamente. “Perché “niente a che vedere””. Era partita perplessa. Non la rividi per parecchie sedute. Poi ritornò. Furiosa. “mi ha rovinato la vita. È disgustoso. Lei fa il contrario di ciò che dovrebbe fare. Perché crede che la gente venga da lei? Per perdere il poco che ha? Viene per essere felice. E lei gli toglie tutto. Lei è un farabutto»[6].
Dopo questo intervento la paziente è invasa dall’angoscia e porta, nel suo rientro in analisi due ricordi, entrambi legati allo sguardo ed uno di questi è legato al padre: è adolescente e lotta con il padre in giardino, corpo a corpo. Il padre la stringe e lei urla per farsi lasciare. Vede poi il padre seduto su una panchina che piange. «Ora, nella seduta, questo ricordo le ritorna in mente e Martine (la paziente n.d.r.) percepisce chiaramente ciò che tuttavia era già visibile, e cioè che l’emozione del padre era di ordine sessuale, e la riguardava. (…) posso testimoniare di averla sentita parlare del suo rapporto con gli uomini in maniera diversa, e soprattutto non ho più sentito parlare di relazione “naturale”»[7]. Come fare, dunque, a far crepare il reale del sintomo?
[1] Membro SLPcf.
[2] J. Lacan, “La terza”, in La Psicoanalisi, n°12, Astrolabio, Roma, 1993, p.19.
[3] J. Lacan, “Intervento”, in La Psicoanalisi, n°3, Astrolabio, Roma, 1988, p.28.
[4] J.-A. Miller, “Il rovescio dell’interpretazione”, in La Psicoanalisi, n°19, Astrolabio, Roma, 1996, p.125-127.
[5] A. Di Ciaccia, “”Niente a che vedere””, in La Psicoanalisi, n°12, Astrolabio, Roma, 1993, p.150.
[6] Ibidem.
[7] Ivi, p.154