Aurora Mastroleo
“Agire è strappare all’angoscia la sua certezza” è la citazione che la Presidente Slp legge in una riunione estiva, annunciando l’avvio dei lavori per la prossima Giornata Clinica della Slp. Appena pronunciate queste parole si trasferiscono sul mio quaderno di appunti dedicato allo studio “matto e disperatissimo” – come direbbe Leopardi – del Seminario X. L’angoscia, condiviso dal 2019 con le componenti del Cartello “l’angoscia e le sue declinazioni contemporanee”.
Le vicissitudini mondiali degli ultimi tre anni hanno offerto del buon pane per i dentini del nostro cartello, consentendoci di affrontare le diverse circostanze sociali – piuttosto angosciose – ed interrogare le declinazioni singolari colte nei casi ascoltati e nelle molte passe rilette insieme. La citazione mi colpisce poiché tra i tanti temi discussi in cartello è precisamente l’opposto di ciò che la frase indica ad interessarmi maggiormente e cioè il non-agire, il “non riesco” come modalità di trattamento dell’angoscia.
L’inibizione protegge dall’incontro con l’angoscia e proprio la sua natura difensiva nasconde il cuore pulsante del discorso del soggetto. Se l’agire strappa la certezza all’angoscia, il non agire la cela? Copre l’oggetto, ossia ciò che c’è di più vero nei discorsi di alcuni giovani pazienti che vengono a parlare di qualcosa che desidererebbero eppure si bloccano e qualcosa congela la vivacità delle loro vite e… li intristisce.
Il comportamento rinunciatario intrattiene un rapporto con la depressione e ciò che mi interessa provare a circoscrivere riguarda la sequenza temporale nella quale il non agire si colloca. Sembra funzionare da premessa ad una possibile caduta depressiva, che resta all’orizzonte del discorso del paziente, in una sorta di implosione che stabilizza, un’assenza di gioia rassicurante. Mi domando se il discorso intrappolato nel non-agire suoni come il preludio di depressioni possibili.
Non agire, non è chiaramente il non fare, ma la pietrificazione di un agire ben preciso che viene invocato ma abbandonato nello stagno del rimandare, evitare, fuggire che mette ben al riparo dall’angoscia. Desideri di gravidanza e l’ufficializzazione dei fidanzamenti mi pare siano frequentemente sottoposti a questo genere di avviluppamento, tanto per citare qualche esempio. Così è il tempo cronologico ad acquisire un valore particolare, laddove invece quello agisce ora dopo ora, avanzando inesorabilmente. Intriganti in proposito sono le pagine dedicate a questo tema da Cavasola in “Isteria, la depressione e Lacan” che sottolinea due versanti possibili dell’inibizione: il versante rinunciatario, più consono alla macchina infernale dell’isteria ed il versante impedimento, più prossimo alla fobia. In effetti Lacan dice: “il termine inibizione ci suggerisce solo l’arresto? Obbietterete facilmente che c’è anche il frenaggio”1. C’è un impedimento ed il discorso frena: “il soggetto è intrappolato dalla cattura narcisistica”. Lacan spiega “nello stesso movimento in cui il soggetto avanza verso il godimento, vale a dire verso ciò che è più lontano da lui, incontra l’intima spaccatura”2. Il non agire asseconda un movimento ripetitivo che consuma tempo.
In tal senso è di aiuto il testo di Bassols dedicato all’uso del tempo in cui sottolinea che nella clinica contemporanea attendere di comprendere può risultare assai problematico, giacché il tempo della globalizzazione è “il tempo dell’Altro che massifica e in modo sincronico si installa in ogni luogo allo stesso modo e tende a cancellare la gioia della vita”3. Queste poche frasi mi pare colgano quel particolare gusto dell’epoca di cui è necessario tener conto quando si ha a che fare con l’inclinazione negativa dell’agire. Trovo illuminante il modo attraverso il quale Bassols ricorda l’insegnamento di Lacan circa il tempo: “se percepiamo il tempo in un certo modo è a causa dell’inconscio”. E poche pagine dopo il testo di Arzente offre una chiara testimonianza della questione: “Inizio a scrivere per poi annullare tutto. (—)Per decolpevolizzarmi riempio ogni possibile vuoto della giornata facendo mille cose. Chiunque mi avesse visto non avrebbe mai potuto affermare che perdevo tempo, che prendevo gusto nel perder tempo”4. Si tratta di questo godimento che attanaglia il soggetto contemporaneo e fossilizza il tempo percepito, nascondendo l’oggetto, avvolgendolo nel più becero non volerne sapere niente? “Essere inibiti è un sintomo da museo”5 dice Lacan e forse una delle declinazioni possibili potrebbe essere: nell’inibizione l’oggetto è posto sotto una teca, affidato all’eterno.
Allora, un particolare maneggiamento del tempo delle sedute, intervenendo sulla loro scansione e anche sulla durata può forse contribuire a rimettere in gioco la dimensione desiderante nel lavoro del soggetto. Questo particolare maneggiamento del tempo nell’hic et nunc, può forse consentire di fare breccia nella teca in cui l’oggetto viene custodito, e riavviare il movimento causato dal rapporto con la mancanza, così odiosa per il soggetto contemporaneo. Assodato che il Supposto sapere è fuori moda, oggi non possiamo che abbandonare l’illusione di trovare un senso per imboccare dunque l’altra strada, la strada imboccata da Lacan a partire dall’insegnamento sull’angoscia. Ad esempio proporre una scansione non concordata, uscire dalla prassi della cronologia delle sedute e accogliere la contingenza…rimanendo avvertiti delle molteplici conseguenze possibili. Laddove tali operazioni possono logicamente mettere in scena l’oggetto custodito dall’inibizione che ricomparire nell’acting out, convocando l’Altro in maniera sintomatica. Si tratta dunque di operare sul tempo, ma anche essere pronti ad accogliere l’appello che l’acting out mette in scena.
1 ivi
2 ivi
3 “L’uso del tempo” di M. Bassols in La pratica analitica nell’orientamento lacaniano, a cura di L. Brusa, Rosemberg & Sellier, Torino 2022, pag. 113
4 “Del tempo non ne voglio sapere niente” di G.Arzente in in La pratica analitica nell’orientamento lacaniano, a cura di L. Brusa, Rosemberg & Sellier, Torino 2022, pag.129
5 J.Lacan, Il Seminario X. L’angoscia. Einaudi,Torino 2007; pag. 13