Lavoro del cartello “Adolescenza e contemporaneità, tra senso e niente”, composto da Elisabetta Caponetto, Federica Facchin, Simone Spoladori, Michela Boccabella e Matteo Bonazzi
Questo scritto, uno e molteplice, è l’effetto che l’emergenza Covid-19 ha prodotto sul nostro Cartello, “Adolescenza e contemporaneità, tra senso e niente”. Alla contingenza che lo ha attraversato, e che ha reso necessaria l’attivazione di modalità di lavoro alternative (online), il Cartello ha reagito con il suo primo passaggio alla scrittura. Dunque, qualcosa di un effetto inconscio è avvenuto nella forma di un’improvvisazione. È questo il fil rouge che attraversa i brevi scritti che seguono.
Il tempo rubato
In questi giorni, i prontuari psicologici diffusi dai mezzi di comunicazione prescrivono ritmi regolari: alzarsi alla solita ora, mangiare ai pasti, lavorare da casa nei soliti orari, fare ginnastica, evitare la ricerca compulsiva di informazioni. Mantenere la routine per rispondere all’angoscia associata al trauma che ha fatto irruzione nelle nostre vite e nella società. Lo squarcio nel simbolico prodotto dal trauma del coronavirus, andrebbe affrontato con la significazione dell’Altro.
Pur non riconoscendomi in questa postura infantilizzante e alienante del discorso dominante, non riuscivo a trovare il modo di saperci fare con questo smarrimento. “Io sono io e la mia circostanza: accettare la propria circostanza e accettandola, trasformarla in una creazione personale”, sosteneva José Ortega Y Gasset1. L’incontro virtuale, fortuito, deciso in pochi minuti, con il gruppo di Cartello, è stato il clinamen di un punto di apertura. I significanti ritmo e improvvisazione sono circolati nel gruppo. Improvvisare è comporre nell’istante diceva Miles Davis, è andare al di là di quel che si sa. Il rubato, nel linguaggio musicale, è la possibilità di gestire la flessibilità del ritmo, variando la durata delle note, rispetto allo standard delle note scritte. È uno strumento di espressione che consente di eseguire un brano non in maniera metronomica.
“L’arte del rubato è quella di essere liberi di attuare impercettibili modificazioni del tempo, pur mantenendo la connessione con esso, la sua pulsazione interna”.2
La decisione di scrivere un breve testo ha sospeso il tempo per comprendere, producendo una piccola composizione all’istante, senza un progetto. L’improvvisazione come pulsazione dell’inconscio, attivata dal transfert sul Cartello. La psicoanalisi e la musica come risveglio del tempo del desiderio.
Elisabetta Caponetto (Genova, 9 aprile 2020)
Impromptu
Un piccolo scritto poco studiato, ma strutturato come un “Improvviso”3 sulla partitura di un lavoro di Cartello… online. Anche questa, in fondo, è un’improvvisazione.
Questo “reale senza legge”4 chiamato Covid-19 ci è piovuto addosso, tracciando solchi che delimitano confini rigidissimi tra l’uno e l’altro, ma anche incidendo la nostra storia con esiti necessariamente declinati al singolare. Si tratta di articolare bene le coordinate di un incontro per coglierne gli effetti. La clinica è una pratica che si svolge sotto il segno della contingenza, soprattutto ai tempi del Coronavirus. Occorre interrogarsi su come sia possibile non cedere sui principi etici che la orientano, esplorando modalità provvisorie di lavoro da definire caso per caso.
Senza garanzia
Il virus ha confrontato tutti noi, e brutalmente, con il “non c’è garanzia”. L’Altro della medicina, con i suoi comitati di etica, è caduto in ginocchio rivelando il buco che lo qualifica come strutturalmente mancante. Anche gli scienziati brancolano nel buio, devono improvvisare, inventare, servendosi di quello che c’è. Si tratta di confrontarsi con l’impossibile. Delle conseguenze che tutto questo dolore avrà su chi è chiamato a trattarlo quotidianamente, rischiando la pelle, e su ognuno di noi, dovremo occuparci a lungo.
Nel frattempo, un’immagine fortissima: il Papa, sotto la pioggia, in una Piazza deserta, a dire parole che non dimenticheremo. E un’immagine tenera, profondamente umana: il Presidente della Repubblica che si inceppa mentre legge, “non mi è mai successo”, e scherza sul suo ciuffo, perché neanche lui può andare dal barbiere.
Questo virus ha tracciato sul genere umano una bella barra. La nostra specie ha preteso di esercitare su questo pianeta un controllo onnipotente e lo ha così trattato in modo scellerato. Le zoonosi (tra cui il COVID-19) sono precisamente il prodotto di questo delirio, come sostiene David Quammen, autore di un libro edito da Adelphi (2014)5, il cui titolo, Spillover, fa riferimento proprio al passaggio del virus dall’ospite animale al primo ospite umano (il paziente zero). Lo aveva detto, David Quammen, che “the next Big One” – la pandemia della contemporaneità – sarebbe stata causata proprio da un virus trasmesso dai pipistrelli nel contesto di un “wet market” in Cina.6
“Virologi”
Il desiderio dell’analista non lo si cerca. Lo si trova. Anch’esso è il prodotto di una contingenza, a volte di casualità che nulla hanno a che fare con la vocazione. È un desiderio che si situa al di là del voler fare del bene, del voler consolare, dell’essere utile (la mission si declina a seconda del fantasma di ciascuno). Oltre questi abbagli immaginari c’è un altro bel virus, persino più contagioso di quello coronato: il linguaggio. E se anche gli analisti fossero a loro modo dei virologi?
Federica Facchin (Milano, 31 marzo 2020)
Al di là di ciò che vediamo
La situazione inedita dentro la quale siamo precipitati dallo scorso 21 febbraio è caratterizzata da una frattura percettiva molto profonda. La maggior parte di noi è stata costretta dentro le proprie case, in un contesto molto spesso protetto e abituale. La ragione che ci ha sigillato dentro al nostro appartamento e ci ha allo stesso tempo forzato a un’innaturale asocialità è invisibile al nostro sguardo. Da un lato il subdolo virus SarS Cov-2, ribattezzato più amichevolmente Coronavirus e causa della malattia Covid-19, è ovviamente un’entità biologica che sfugge allo sguardo, dall’altro i luoghi nei quali gli effetti della pandemia si fanno visibili sono, per chi non ne è stato direttamente colpito, in un altrove distante e irraggiungibile: gli ospedali, le terapie intensive, i pronto soccorso e anche le piazze deserte e gli obitori ricolmi di bare. Ecco allora che la tangibilità dell’emergenza passa forzatamente attraverso segni indicali, immagini che si strutturano in un rapporto di causa/effetto e che possiedono una notevole potenza emotiva, poiché veicolano in qualche modo il nostro incontro con il reale e lo fanno in modo improvviso, squarciando di colpo un velo che protegge molti di noi dal trauma della storia.
La prima, potentissima immagine che ci ha travolto in questo senso è stata indubbiamente quella degli autocarri militari per le strade di Bergamo che trasportavano fuori dalla città i corpi dei defunti da cremare, dal momento che i forni dei cimiteri della città e delle aree limitrofe non riuscivano più a reggere il ritmo dei morti giornalieri. Dalle prime settimane di lockdown, la narrazione della pandemia e degli sforzi collettivi in atto per contenerla è scivolata su un discorso metaforico per certi versi inopportuno, appartenente al campo semantico della guerra e della vita militare: siamo “in guerra”, ci è stato detto, il “nemico” è invisibile, gli ospedali sono la “trincea”. Per la maggior parte degli italiani è un discorso astratto, nessuno o quasi di noi ha davvero attraversato un “tempo di guerra”. Quell’immagine notturna, però, con la sua rigorosa natura indicale, ha improvvisamente iniettato una dose traumatica di reale all’interno di un immaginario retorico e ci ha fatto male, ha sussurrato all’orecchio di noi privilegiati, che diamo il nostro contributo dal divano di casa, che “sì, è tutto vero”.
Pochi giorni dopo, ecco un’altra immagine che è destinata a rappresentare questo tempo anche nei prossimi anni, con il Papa protagonista di una scena che sembra scritta da un abile e visionario sceneggiatore. In diretta televisiva con tutto il mondo, Francesco si mostra in piedi in silenzio in una Piazza San Pietro deserta, sovrastata da un cielo cupo e sferzata dalla pioggia. Dietro di sé, l’immagine della Salus Populi Romani (l’icona bizantina di Maria conservata in Santa Maria Maggiore) e il Crocifisso di San Marcello (che nel 1500, così dice la tradizione, salvò la città dalla peste). Solo otto candelabri illuminano il sagrato. Una composizione visiva poderosa, anche perché non ha precedenti nella storia e stride con il nostro immaginario di una piazza San Pietro ricolma di gente. Il papa stesso appare stanco, provato, schiacciato dal peso delle sue preghiere senza risposta.
In questo contesto allucinato, all’interno della faglia che si apre tra l’ambiente domestico protetto e gli squarci prodotti da queste immagini traumatiche, c’è una quotidianità che oscilla, anch’essa, tra un ordine simbolico “che tiene” e una nuova ritualità che si fa strada. Ogni giorno ne vivo un esempio perfetto: per due ore, ogni mattina, insegno in un liceo, ovviamente “a distanza”. I miei studenti non sono toccati dalla mannaia del digital divide e si presentano (quasi tutti) puntuali, davanti allo schermo del loro tablet. La responsabilità che sento nei loro confronti è quella di “normalizzare” (e non, banalmente, di normare) la loro routine, di contribuire ad arginare il trauma che quelle immagini di cui sopra possono generare, di stimolare la percezione che ci sia un “nonostante tutto” e che quindi ci sarà un “dopo”.
Non so se io ci stia riuscendo, certo ho sentito il bisogno di cambiare alcune mie abitudini di lavoro, o quantomeno di recuperarle. Solitamente non faccio mai l’appello. I miei colleghi, giustamente, protestano con me perché spesso mi dimentico di compilare il registro. Ho solitamente un pessimo rapporto con la burocrazia. In queste settimane ho avvertito la necessità non solo di recuperare questi elementi ma anche di “mostrarli” ai miei studenti, quasi volessi sottolineare con loro l’esistenza di un “dietro le quinte” che lavora in loro funzione. Mi pare che la loro reazione sia stata positiva, che abbiano percepito, a partire da queste cose, che “allora sì, siamo a scuola”. Una scuola diversa, certo, in cui la mancanza del contatto è a volte drammatica, ma che è compensata da altri squarci di umanità.
Un esempio: in molti dei riquadri in cui, sul mio schermo, sono incasellati i volti dei miei studenti, compaiono a volte anche i loro animali, cani o gatti che sia. I ragazzi prendono appunti, ascoltano o parlano, discutono di Ossi di seppia o dell’Orlando furioso, e gli animali stanno lì in braccio, si fanno accarezzare, a volte abbaiano o miagolano, come fosse una sorta di pet therapy. Alcuni mi chiedono se per me è un problema. Certamente no, non lo è. È solo parte di un nuovo assetto che dovremo costruire insieme.
Simone Spoladori (Milano, 11 aprile 2020)
Un velo strappato lo cuce l’invenzione
Come funziona un velo quando non esiste una velatura possibile, quando all’improvviso il trauma è schiacciato addosso, impresso nella carne, e tutto il corpo è invaso da un impossibile?
Come funziona un velo quando non ci sono le parole per dire e anche i tempi saltano e con loro saltano i ritmi, la struttura di una normalità che reggeva per ognuno?
Urgenza e pacificazione, confusione e ritmo… improvvisazione!
Arrivare in comunità ogni giorno a lavorare ha iniziato ad assumere un peso indescrivibile, sono nervosa, siamo tutti più nervosi. Si sfilaccia il discorso che avevo sempre apprezzato, in questo nuovo gruppo di lavoro, perché attento ad ogni paziente in una maniera nuova per me.
Mi è sempre piaciuto che, in comunità, ci fosse una cornice sempre ben delineata. La ritualità di una cornice salda e strutturata e il lavoro attento e certosino degli operatori hanno fatto sì che esistesse un impasto di attenzione clinica e buon senso pratico. Questo ha permesso che, nel tempo, la struttura funzionasse in maniera attenta a tutti e ad ognuno e che le buone pratiche vi potessero crescere attraverso.
L’impatto con il reale ci ha colpiti e ha colpito la struttura portante che sorreggeva tutta la matassa. Penso che ognuno di noi operatori, d’improvviso, si sia ritrovato solo. I silenzi ai cambi turno hanno iniziato a farsi pesanti e le distanze ad aumentare. Scherzare è diventato difficile.
Forse era naturale che accadesse, la precarietà ha bussato anche alla porta delle istituzioni e il discorso si è mostrato nudo là dove il velo è crollato.
Abbiamo iniziato a non sentirci protetti, le mascherine a scarseggiare e anche i casi di “normale” influenza e febbre tra i pazienti, per disposizione, sono diventati isolamento forzato in stanza e paura, da ambedue le parti.
Noi non eravamo in grado di parlarne, le parole non c’erano.
Ritornavano in nostro soccorso i fatti, i riti, quando c’erano, ed erano nuovi: misurare al paziente isolato febbre e saturazione, da parte dell’infermiere, ogni tre ore, “dai ti accompagno, aspetto fuori”, le parole oltre la porta.
I silenzi diventavano pesanti ed erano carichi di morte.
Ma l’invenzione tardava ad arrivare e la carica non si trovava. Era una miccia che si accendeva sempre dalla parte sbagliata e bruciava dove avrebbe dovuto spegnersi e l’oggetto si perdeva in un godimento impiastricciato di morte, senza senso.
“Parliamone. Anche con loro, come ne parliamo tra di noi”.
In appartamento silenzio, non ho il coraggio, qualcuno apre il discorso. Coronavirus appare, è una valanga, ognuno ha da dire la sua. Ci confrontiamo, anche io sono perplessa, ci sono cose che non ci convincono, le condividiamo.
Cominciano ad arrivare le invenzioni, c’è una cornice da reinventare!
“Deve uscire solo l’operatore”.
Si possono fare le spese personali per i pazienti suddivise in tre volte la settimana.
Un’ora e mezza di coda al supermercato, “inventate delle attività da fare al pomeriggio!”.
“Cucina un paziente solo e poi ognuno mangia in stanza”.
Mascherine costruite a casa con la stoffa per tutti, pazienti e operatori.
“Ma come mai non arrivano quelle che abbiamo ordinato?”, “ne vendono un tipo al supermercato, compro tre pacchi e le proviamo?”
Qualcosa si va costruendo, i cambiamenti importanti in comunità arrivano a trance, come i decreti. Li accettiamo all’unanimità.
Prima di iniziare il turno ci fermiamo in sala caffè a misurarci la febbre. C’è la paura che corre tra i nostri sguardi.
“Chi ha la temperatura più alta paga il caffè per tutti!”
Possiamo parlare e mi accorgo che le parole, a volte anche senza senso che ci scambiamo, senza il solito senso, sono come un filo che ci passiamo. Io lo passo a te, che lo passi a lei, che lo passa a lui, che lo ripassa a te. E andiamo avanti così e costruiamo una tela. Sarà quella tela a reggere per noi, per tutto il turno, per tutto il faticoso turno che non è mai stato così pesante da completare.
Forse quella tela è la struttura, la cornice, che fa sì che ognuno di noi torni, ogni giorno, nonostante la fatica e la paura, a lavorare. È quella tela che forse ci aiuta a reggere una posizione da operatore, più umano sì, ma operatore, con la sicurezza di non cadere nel vuoto.
E ci sarà ancora tanto da inventare…
Michela Boccabella (Mondovì, 25 marzo 2020)
La regola monastica e la scrittura dell’inconscio
In questi giorni di isolamento, ciascuno di noi si è trovato a confrontarsi con una dimensione del tempo che solitamente resta poco percepibile, coperta dalle tante incombenze che l’Altro ci propone. Un tempo ritrovato, da un certo punto di vista. Eppure, anche, un tempo che resta perduto. Ma, soprattutto, un tempo che d’un tratto ci ricorda che non ce n’è poi tanto, che, come si dice, il tempo stringe. Allora, mi domando che cosa “stringe” il tempo in questo frangente. Quale necessità si disegna sotto la stretta della contingenza in cui ci troviamo, ciascuno a proprio modo, con gradi e modalità d’intensità evidentemente differenti?
Il tempo stringe e si stringe attorno a una Cosa centrale: perché lì non prevalga l’angoscia ma il lavoro, è necessario piegarlo, questo tempo, scriverlo, ritmarlo. Ecco, il ritmo è una piegatura interna al tempo che stringe e che, così, può fare la differenza. Non si tratta tanto, o non solo, di organizzare il proprio tempo, ma di scandirlo, di disegnarne la dinamica, di ritmarlo, appunto. Come si dice in musica, in fondo così è anche per l’inconscio: se il tempo è una delle poche funzioni del reale che incontriamo, lo è perché il ritmo lo viene a scandire. Jacques-Alain Miller ne parlava nei termini di un’erotica del tempo.7 Ecco, il ritmo è ciò che rovescia, nel tempo, il suo precipitare verso la Cosa, piegandola verso l’erotica: una scrittura che erotizza.
Paradossalmente, mi viene in mente la regola monastica: in quel caso, non si trattava semplicemente di organizzazione delle giornate, ma di una scrittura “erotica” del vivente che permettesse di tener vivo il riferimento all’Altro (Dio). C’è forse in gioco, per noi in questo momento, una questione che riguarda la politica del vivente: come scriviamo il suo ritmo, come abitiamo la sincope de “la vita-la morte”, come scriveva Derrida. E come pensare tutto ciò non più all’interno della cornice teologica?
A livello della sua scrittura, il simbolico non è rappresentazione, ma scansione, articolazione, ritmo, appunto. È questo forse uno dei contributi più evidenti dell’invenzione clinico-teorica di Lacan. Parte dalla considerazione che il significante non solo sta sempre per un altro significante ma anche è traccia scritta che viene a solcare, come un “vomere” (diceva già al tempo del Seminario V8), il corpo parlante. Questo tracciato va pensato in tutta la sua complessità: in estrema sintesi, cancella quel che scrive per mostrarlo in forma rovesciata a livello della rappresentazione. Da questo punto di vista, il significante non è un segno ma una cancellatura.
È inserendosi in questa diplopia strutturale che possiamo allora cominciare a pensare il ritmo al di qua dell’impiego del tempo. Ecco perché dalla regola (monastica) non si passa direttamente all’organizzazione del tempo, al planning e al self-made man. La “regola” dice di un altro uso del tempo, non in vista dell’organizzazione e della messa a profitto del vivente e della sua generatività, ma del suo godimento estatico. Tradotto in termini analitici, l’oggetto di cui si tratta non è ciò che possiamo trattare a livello del progetto: non è anticipandolo, organizzandolo, pro-gettandolo che ce ne prendiamo cura. Si tratta di pensare il ritmo altrimenti e secondo un’altra idea di cura.
Curarsi dell’oggetto – di ciò che più ci sta a cuore e di cui è impossibile dire qualcosa, come ricorda Platone nella Lettera VII – o del nocciolo della nostra essenza (Kern unseres Wesens), come indica Freud, significa tracciarne i bordi attraverso una scrittura che si avvicina più alla musica che alla semantica del senso. Una scrittura musicale che quindi passa attraverso l’annodamento dell’orizzontalità melodica, della verticalità armonica e della scansione ritmica. Non in vista dell’espressione ma, appunto, del disegno. Un disegno, che come Merleau-Ponty dice precisamente per l’infante, non ha nulla a che vedere con la finalità rappresentazionale dell’adulto, ma col godimento del tracciare i bordi, solcare i confini, contornare i vuoti. Questa “calligrafia del fantasma”9, come la chiama Éric Laurent, è ciò che in un modo o nell’altro ogni adolescente eredita dal bambino che era, senza saperlo. Ha a che fare con il modo singolare con cui ha di fatto disegnato la propria “matrice”10 sul bordo del vuoto della Cosa. Detto altrimenti, si tratta di quella gestualità significante primordiale con cui l’infante ha fatto ex-sistere l’oggetto. Questa traccia si ripete ed è questa ripetizione a tenere in vita anche l’adolescente, senza che lui lo sappia. Si tratta, allora, di ripensare il ritmo come scrittura che rinnova la matrice singolare con cui ciascuno si è cifrato separandosi dall’aspirazione primordiale del grande Altro.
Il ritmo e la regola, allora, non sono operazioni gestionali ma piuttosto (ri)creative. Scrivono, per ciascuno, il modo in cui la piegatura vita-morte può contrarsi ed espandersi, producendo quel più di godimento da cui, appunto, si può ricavare profitto. Un altro profitto rispetto a quello che il discorso del capitalista impiega al proprio interno. Un’eccedenza che anche in questi momenti di isolamento ci permette di constatare che nella più profonda solitudine c’è dell’Altro. O, detto altrimenti, che l’Uno non è se non perché ex-siste sul bordo del centro vuoto dell’Altro.
Matteo Bonazzi (Milano, 30 marzo 2020)
↲1 | Josè Ortega Y Gasset, Meditazioni del Don Chischiotte, a cura di Armando Savignano, Mimesis, Milano-Udine 2014. |
---|---|
↲2 | D. Baremboim, La musica sveglia il tempo, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 25. |
↲3 | Un po’ di bellezza. A questo link, un meraviglioso Improvviso di Chopin (Fantasia Improvviso in Do diesis minore, Op. 66 postuma) |
↲4 | Si veda il n. 4 di Rete Lacan, integralmente dedicato al reale senza legge |
↲5 | D.Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, Adelphi, Milano, 2014. |
↲6 | Qui l’intervista a David Quammen pubblicata su il Manifesto, 24 marzo 2020 |
↲7 | J.-A. Miller, Introduzione all’erotica del tempo, “La Psicoanalisi”, n. 37, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 2005, pp. 15-46. |
↲8 | J. Lacan, Il Seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio, 1957-58, a c. di A. Di Ciaccia, tr. it. di A. Di Ciaccia e M. Bolgiani, Einaudi, Torino, 2004, p. 26. |
↲9 | E. Laurent, La lettera e il reale per la psicoanalisi, “La Psicoanalisi”, n. 26, Astrolabio, Roma, 1999. |
↲10 | J. Lacan, Il Seminario. Libro X. L’angoscia, 1962-1963, a c. di A. Di Ciaccia, tr. it. di A. Di Ciaccia e A. Succetti, Einaudi, Torino, 2007, p. 347. |