Giuseppe Monaco1
“Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so”.
Sant’Agostino
Quasi sicuramente per il grande pubblico la differenza tra moda e stile è inesistente o poco importante. Anzi, molto spesso questi due termini sono utilizzati come sinonimi o addirittura fusi insieme, come se lo stile fosse stato fagocitato in una lotta all’ultimo sangue dalla moda. Questo è il risultato della nostra cultura di massa, dell’usa e getta imperante, della fast-fashion che non ha e non lascia il tempo per capirne il senso o la ragione stessa della sua esistenza, se non quella meramente commerciale e finanziaria. La moda non esisterebbe senza lo stile che deve essere inteso come una proposta “strutturante e funzionale” dell’apparenza sociale, frutto della visione, della sintesi e della critica sociale e artistica del “creatore” immerso e attore dell’epoca in cui vive. Lo stile, oltre a riflettere e lavorare sulla forma dell’oggetto, si interessa anche alla materia che lo costituisce. Coco Chanel entra nell’empireo degli immortali perché riesce con il suo stile, con le sue proposte ad anticipare o ad inventare i nuovi bisogni delle donne della sua epoca, liberandole dai corsetti con i suoi “tubini” e pantaloni da marinaio, inventando il tailleur, autorizzandole a correre e a fare dello sport introducendo e proponendo loro dei tessuti nuovi per creazione o per uso come il jersey. Sdogana le sigarette e il rossetto, fin ad allora riservati alle mezze mondane, taglia i capelli alla garçonne rendendo antichi gli chignon. Christian Dior nel ‘47 con il suo New Look è un balsamo che lenisce e cicatrizza le ferite ancora aperte della seconda guerra mondiale, è un’esplosione di gioia e di voluttà in risposta al dolore, alla paura e alla penuria di quegli anni appena passati. La sua silhouette, in assoluta rottura con quella imperante prima del suo arrivo, ha spalle arrotondate, vita stretta ottenuta con un leggero bustino elastico che chiamerà guepière; struttura e ingentilisce il portamento delle donne con la sua giacca Bar. Le gonne sono svasate a forma di corolle e si fermano a soli 20 cm dal suolo. Ad ogni collezione Dior riesce a creare stupore e ammirazione con continui lavori ed evoluzioni delle proporzioni e forme della sua silhouette. Le linee Illusione, Verticale, Lunga, Sinuosa, Tulipano, Lunga, H, A, Freccia, Fuso si susseguiranno fino al ‘57 anno della sua morte. Contribuisce così, in un decennio, alla trasformazione dell’immagine della donna e alla reindustrializzazione della filiera tessile con le decine di metri di tessuto necessari per realizzare una sua gonna o un suo abito; inventa le licenze per democratizzare il suo marchio e diventa la voce più importante dell’export francese. Saint Laurent fu collaboratore e poi successore di C. Dior alla guida artistica del marchio omonimo dopo la sua morte prematura, prima di fondare la sua Maison nel 1962. Fu il primo negli anni 60 a creare un ponte tra la verità e la vitalità della “Strada” e il mondo ovattato e alto borghese della Haute Couture, chiuso nelle proprie autocitazioni senza alcun rapporto con la realtà. Rese le donne eccessivamente “sexy” offrendo loro icone del guardaroba maschile, come il blazer, lo smoking, la sahariana, il trench, il tailleur pantalone, il chiodo di pelle (giubbotto) per affrancarle dal controllo maschile e renderle “libere”, “indipendenti” e “cacciatrici” alla stregua dei loro stessi padri, fratelli, fidanzati, mariti o amanti. Prima di tutti, arricchisce le sue collezioni di commistioni etniche e folcloristiche provenienti dall’Africa, dall’India, dalla Spagna e naturalmente dal Marocco, unendoli al suo enorme amore per l’Arte prima che questo diventasse un luogo comune imperante sulle passerelle di oggi, rendendo straordinari omaggi a Picasso, Braque, Andy Warhol, Mondrian e Matisse. Nel ventennio 60-70 divenne il marchio di lusso più venduto al mondo. Andre Courrèges inventa la Space Age Couture mandando la donna sulla Luna, coinventando la minigonna insieme a Mary Quant, presentando per primo gonne e i miniabiti a trapezio, inventando i fuseaux che sono una via di mezzo tra i pantaloni e i collant, i go-go boots, accorciando le giacche fino a farle diventare giacchini squadrati in nome della libertà di movimento delle donne, introducendo nuovi materiali come il PVC e la pelle in vernice.
“Il vestito è un sistema significante senza significato come ogni linguaggio. Non per questo, però, siamo autorizzati a fargli dire qualsiasi cosa.”2
La Moda che non riflette sulla forma, né sulla struttura architettonica, né tantomeno sui materiali utilizzati per la realizzazione dell’abito, lo ancora al presente, al contingente, al “perissable”, al temporale, all’effimero. Per farlo utilizza orpelli e artifici (colore, stampe, ricami, applicazioni, bottoni, strass, ecc) che servono a nascondere la banalità delle forme, a giocare con l’età anagrafica, la condizione e il ruolo sociale. Potremmo dire che la moda è “geneticamente programmata” (visto anche la sua etimologia) per passare di moda, inseguendo stagione dopo stagione l’effetto sorpresa della novità, del nuovo. Ci sono aziende che realizzano fatturati miliardari riproponendo, stagione dopo stagione, le stesse forme rimixate ma con un nuovo “decoro”. Esemplare il lavoro del marchio Dolce&Gabbana che per la collezione uomo di questa stagione Primavera Estate 21 ha presentato un’infinita e stucchevole variazione di stampe che ornano i capi sul tema delle mattonelle che il grande architetto Gio Ponti realizzò per l’Hotel Parco dei Principi di Sorrento. Altri esempi straordinari di “moda” sono i marchi Moschino e Philippe Plein che presentano, invariabilmente, rivisitazioni della Pop Art e delle sottoculture giovanili americane per il primo e tonnellate di strass per il secondo. Sempre più d’attualità una frase lapidaria di Coco Chanel: “La moda passa, lo stile resta”.
Cartello: Psicoanalisi e moda: l’abito che fa il monaco.
Argomento: il Monaco che fa l’abito. Il punto di vista di un “produttore” di moda.